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24 aprile 2024
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Vittimismi e vecchie orticarie. La guerra è brutta e scomoda (ed è meglio non parlarne).

Novello Monelli * - 28.08.2014
James Sheehan

Scriveva Paolo Monelli nel 1929, introducendo La guerra è bella ma è scomoda, che a pubblicarlo, quel volume, ci si era quasi giocato la carriera. Perché in tempi di regime l’umorismo era una merce scarsamente circolante, specie se il bersaglio era la retorica ufficiale sulla bella avventura patriottica del ’15-’18. Per i sicofanti delle celebrazioni ufficiali e i maestri del fervorino da quattro novembre la guerra doveva essere semplicemente bella, senza se e senza ma. E pazienza se i soldati al fronte erano morti in mezzo al fango e ai pidocchi e  non caricando il nemico con la sciabola sguainata e l’Italia nel cuore. A cento anni dall’inizio del conflitto europeo, e a più di cinquanta da quando la generazione della contestazione decise di averne abbastanza dei racconti del nonno a base di patria e bandiera, un ipotetico autore in cerca di effetti ironici dovrebbe rovesciare la prospettiva. Se c’è un termine tabù oggi è proprio “guerra”.

In parte, gli italiani non fanno altro che adeguarsi ad alcune idiosincrasie largamente egemoni nel contesto europeo. Come scrive James Sheehan in Where Have All the Soldiers Gone? una delle conseguenze più eclatanti del 1945 fu il desiderio degli abitanti del continente di rimuovere l’idea della guerra dal proprio panorama mentale. Mentre si aggiravano tra le macerie di un mondo distrutto, sia gli sconfitti che i vincitori, che fino a pochi anni prima avevano associato alle armi e al conflitto una galassia di valori positivi (era in guerra che si forgiavano le nazioni, ed era sul campo di battaglia che i giovani dovevano dimostrare di essere uomini), decisero che era ora di voltare pagina. Benché Sheehan sia abbastanza semplicistico nelle sue asserzioni, non c’è dubbio che negli ultimi decenni armi, battaglie e uso legittimo della violenza siano finiti progressivamente al margine del discorso pubblico. Parlare di impegni militari e degli inevitabili sacrifici ad essi connessi, dalla perdita di vite umane all’aumento della spesa pubblica, è talmente imbarazzante per un qualsiasi politico da spingere all’utilizzo di formule mimetiche ai confini del grottesco. “Missioni di pace” e “missioni di interposizione” sono alcune di queste stravaganti dissimulazioni verbali, ma il più diffuso è probabilmente l’ossimoro “peace enforcement”: un’infelice scelta comunicativa, probabilmente opera di qualche funzionario digiuno di cultura classica (“dove fanno il deserto, dicono che è pace”, scriveva un paio di millenni Tacito, in un passo non esattamente esaltante). Naturalmente, tutti questi eufemismi non cambiano di una virgola la realtà dei rapporti internazionali e l’ovvio fatto che il ricorso alla forza è spesso più che necessario: per citare l’ex generale Rupert Smith (The Utility of Force), non c’è dubbio negli ultimi cinquant’anni la guerra abbia cambiato forma radicalmente, passando dagli schieramenti di carri da battaglia alle piccole unità di fanteria leggera iper-tecnologiche adatte alle “guerre tra la gente”, ma pur sempre di guerre si tratta. Eppure la politica si pasce di eufemismi. Nel 1982, Margaret Thatcher, non esattamente il più accomodante leader europeo degli ultimi decenni, riuscì a pronunciare un intero discorso alla Camera dei Comuni per annunciare l’inizio delle ostilità contro l’Argentina senza mai usare la parola “guerra”.

Il problema è che ad avventurarsi in queste acrobazie linguistiche sono anche gli studiosi, che con fatti e concetti dovrebbero avere un rapporto più onesto. Il centenario della Grande Guerra è un ottimo laboratorio per verificare come più di una generazione di intellettuali e accademici provi un imbarazzo ai confini dell’orticaria nel misurarsi con la guerra e la scala di emozioni e valori attribuitile (per più di qualche secolo) dalla cultura europea. In linea di massima, la stragrande maggioranza di coloro che esprime giudizi e opinioni sul conflitto di cento anni fa pare non riesca a prescindere dall’assunto che tutti coloro che ne erano coinvolti erano “povere vittime”. Nelle scorse settimane, uno dei tanti appelli alla riabilitazione in massa dei fucilati italiani durante la guerra ha trovato un’entusiastica adesione persino tra i ranghi degli storici di professione. Non c’è dubbio che la giustizia militare, tra 1915 e 1918, sia stata amministrata spesso e volentieri in modo brutale. Ma ciò non toglie che tra le circa mille fucilazioni eseguite dall’esercito italiano durante il conflitto, alcune centinaia fossero comminate (e diffusamente percepite) come punizioni legittime (secondo criteri rimossi dal codice di guerra non molti anni fa), per reati violenti contro commilitoni o civili, o per violazioni estreme (le diserzioni con passaggio al nemico furono rare, ma ci furono). Pensare che i condannati ingiustamente (non pochi) e coloro che vennero giustiziati dopo un processo con contraddittorio meritino una indistinta riabilitazione è semplicemente anacronistico.

 Il vittimismo patetico è un problema per chi si avventura nella comprensione della guerra nel Novecento, se non altro perché si tende a dimenticare che una vasta schiera di coloro che la vissero (e che ci morirono) erano sinceramente convinti che prendere le armi per la propria comunità fosse non solo un preciso dovere ma anche un onore. Che ciò turbi la sensibilità delle generazioni di oggi è un fatto, ma si tratta di uno iato cognitivo che almeno gli storici dovrebbero saper superare.

 

 

 

* Professore a contratto Università di Padova