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18 settembre 2024
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Verso la fine delle convergenze parallele

Paolo Pombeni - 23.02.2022
Convergenze parallele

“Convergenze parallele” fu l’etichetta che venne data all’accordo sostanziale del luglio 1960 fra tutti i partiti, escluso il MSI, per un governo di tregua che portasse il paese fuori dalle turbolenze dell’avventurismo dell’esecutivo Tambroni. Il termine fu a lungo attribuito alla fantasia linguistica di Moro, allora segretario della DC, che invece non lo usò mai. Venne reso pubblico da un articolo di Eugenio Scalfari, ma lo aveva già impiegato prima nel suo diario Pietro Nenni, segretario del PSI, per spiegare quell’intesa anomala. In sostanza i partiti convergevano in forme diverse (appoggio esterno, astensione, opposizione morbida) a far lavorare un governo monocolore dc guidato da Fanfani, ma ciascuno si riservava di continuare a perseguire i suoi scopi che non convergevano affatto.

Per dirlo in sintesi: una componente a destra voleva rimettere in sella il vecchio centrismo chiuso a sinistra, un’altra pensava ad “aperture” che includessero in vario modo una parte almeno dell’opposizione socialista. Finì storicamente dopo una lunga storia travagliata con l’avvio nel febbraio 1962 di un primo esperimento di centro-sinistra. I “convergenti” tornavano a divaricarsi, ma non più nelle vecchie sedimentazioni: se la destra liberale tornava all’opposizione, quella dc, si inseriva nel nuovo gioco, mentre la sinistra socialista, sotto pressione del PCI, si sarebbe staccata dal PSI al governo col partito cattolico.

Ci siamo permessi questo breve e rozzo excursus storico, perché sta accadendo qualcosa di vagamente simile con l’esperienza del governo Draghi. Anch’esso è un governo non tanto di unità nazionale, quanto di convergenze parallele. I partiti che lo sostengono hanno accettato di convergere su due obiettivi limitati: riuscire a mettere sotto controllo la pandemia e mettere il Paese in condizione di ricevere i fondi europei per avviare il PNRR. Davvero in parallelo, ciascuna componente della maggioranza ha continuato a lavorare per i propri scopi di parte: costruire le basi per un futuro governo imperniato o su una coalizione di centrodestra o su una di centrosinistra.

Il presupposto era che il quadro politico sarebbe rimasto più o meno quello del 2019 e che il raggiungimento dei due obiettivi avrebbe restaurato un contesto in cui la coalizione vincitrice del futuro confronto elettorale poteva semplicemente riprendere a piantare le sue bandierine nella tranquillità di un panorama che non poneva grandi problemi di tenuta sociale ed economica.

Questo calcolo si sta rivelando sbagliato. Innanzitutto la ricostruzione del paese non sarà affatto un semplice ritorno al buon tempo pre-Covid (ammesso e non concesso che fosse davvero un buon tempo). Non solo l’esperienza della pandemia ha messo ulteriormente in luce le fragilità del nostro sistema complessivo, ma sta modificando le stratificazioni sociali e le culture diffuse. In secondo luogo il quadro delle forze politiche è mutato. A destra c’è una evidente crisi di quel moderatismo all’italiana che tutto sommato aveva fatto la fortuna dell’età di Berlusconi. Le tensioni rilanciano estremismi, demagogie e populismi, mettendo anche in luce le fratture fra componenti che hanno imparato a governare, e componenti che non sanno uscire dalla rozzezza dei neofiti arrembanti: un fenomeno molto preoccupante a livello di classi dirigenti, che fra il resto segnala divergenze fra regioni dove prevalgono le prime e altre dove, pur sotto diverse bandiere, sono dominanti le seconde.

A sinistra emerge con sempre maggiore chiarezza il venir meno dei legami trasversali un tempo in mano al gruppo dirigente del partito erede delle classi dirigenti del PCI e della sinistra dc. E’ difficile tenere insieme una alleanza “larga” se non si dispone al proprio interno di una reale egemonia intellettuale capace di produrre un disegno strategico. La crisi irrisolta dei Cinque Stelle da un lato e il nascere con Calenda di una proposta “riformista” creativa dall’altro disegnano un quadro in movimento rispetto al quale il gruppo dirigente del PD è diviso al suo interno e soprattutto non riesce a proporre una sintesi di prospettiva, perché tale non può essere la pura organizzazione delle competizioni elettorali (su cui poi pesano gli interessi “professionali” dei quadri dirigenti attuali).

È l’incertezza di questo momento che spinge allo scioglimento anticipato delle convergenze parallele. Nella difficoltà di immaginarsi verso dove i cittadini spingeranno il sistema politico, perché il bipolarismo da barzelletta ha fatto il suo tempo (può continuare ancora un po’ giusto nei teatrini mediatici), i partiti cercano tutti di stringere le proprie fila nella speranza che ciò sia sufficiente a salvarne il ruolo. Interessa poco che il prezzo sia rendere la vita difficile al governo Draghi, il che significa mettere a rischio il raggiungimento dei due obiettivi che abbiamo richiamato all’inizio. Ormai si è capito che la marcia verso quei traguardi sarà lunga e complicata e questo comporta la necessità di considerare bene con chi ci si allea. Non è più proponibile la vecchia strategia della seconda repubblica, quella di tenere fermo un certo pacchetto di obiettivi per lasciare poi che gli alleati si tolgano lo sfizio di piantare un po’ di bandierine giusto per far scena: una prassi che hanno usato tanto i governi di destra che quelli di sinistra e che è continuata con beata distrazione nei due governi guidati da Conte.

Adesso la discussione che si svolge abbastanza sotto traccia è la seguente: considerato questo quadro non sarebbe bene continuare con l’esperimento Draghi? Peccato che non sia chiaro come si possa farlo senza risolvere il problema dell’equilibrio politico da costruire dopo la chiamata degli elettori alle urne. Le convergenze parallele non funzionano più. E’ tempo di costruire convergenze reali, ma per quelle non servono le ammucchiate fondate su un po’ di slogan alla moda.