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Urlare forte per farsi sentire dai sordi?

Paolo Pombeni - 20.09.2017
Fila di votanti

L’abitudine ad urlare forte sembra prendere sempre più piede nella politica politicante (cioè quasi tutta la politica). Lo si faccia alzando i decibel o buttandosi in metafore improbabili o dispensando scomuniche a dritta e a manca non cambia molto. Quello che ci si deve chiedere è invece semplice: perché lo fanno?

Non è difficile rispondere. Ci sono due fondamentali ragioni. La prima è dare la carica o fare coraggio alle rispettive truppe. E’ una vecchia tecnica sperimentata da tempo immemorabile da tutti gli eserciti del mondo: si va all’assalto urlando. Serve ad aumentare l’impressione che siamo tanti, e senza paura mentre il nemico fuggirà impressionato dalle nostre urla. Ovviamente funziona poco.

La seconda ragione è l’illusione che così sarà più facile costringere anche i duri d’orecchio ad ascoltare il grido. Si suppone che una parte, magari cospicua della cosiddetta audience, sia o distratta o piuttosto debole di udito, per cui gli alti decibel scuoterebbero il suo torpore. Anche qui ci sono controindicazioni, perché l’intensità del rumore disturba tutti coloro che ci sentono almeno decentemente e li spinge a tapparsi le orecchie, ma lasciamo perdere.

Qui si vuole fare un ragionamento politico. La prima spiegazione ci porta a chiederci quanto i leader dei vari raggruppamenti si sentano sicuri del proprio seguito. Nella compianta prima repubblica per lungo tempo i blocchi dei consensi erano molto stabili. Certo si poteva oscillare di qualche punto in più o in meno, ma raramente questo aveva un effetto davvero destabilizzante. Ciascuno era sicuro di poter contare su un suo ”popolo” (e questo è rimasto nel subconscio di tanti politici). Da tempo non è più così, la mobilità elettorale è in crescita, ma più che altro è in crescita la fuga dalle elezioni: ma su questo più avanti.

Diventa perciò essenziale per i vari leader e leaderini accentuare il richiamo ai cosiddetti animal spirits della propria parte per tenere compatto il nucleo duro dei pasdaran. Si obietta che però questo potrebbe allontanare quei seguaci che pasdaran non sono, ma non si tiene conto che coloro che puntano su quella tattica sono convinti che i veri pasdaran provvederanno a fare i cani da pastore del gregge , impedendo fughe delle pecore lungo la via da percorrere.

Essenziale in queste strategie è la demonizzazione totale dell’avversario, ma persino del competitore/alleato. In tempi in cui l’incertezza sull’identità è alta vanno innalzati i recinti, altrimenti c’è il rischio che i propri seguaci si disperdano nei campi dei vicini e magari raggiungano anche quelli degli avversari.

Tuttavia c’è un punto più importante da esaminare. Se la strategia dei nostri politici è quella di congelare al massimo possibile le rispettive quote di consenso, dove troveranno le risorse per incrementare i propri spazi elettorali? Non si risponda ingenuamente che lo si farà strappando consensi agli avversari e ai concorrenti. Per strano che possa sembrare (ma non lo è) i sondaggi dimostrano una eccezionale stabilità delle diverse quote di consenso alle forze in campo. Ovviamente ci sono scostamenti di qualche punto a seconda delle date delle rilevazioni, ma è roba poco significativa: non solo per l’esiguità delle variazioni, ma perché essendo rilevazioni a campione dipendono dal mutare delle risposte di un pugno di intervistati, le quali vengono ingigantite trasformandole in percentuali nazionali. Tutti i sondaggisti seri lo sanno e lo dicono, anche per spiegare perché poi non sempre le loro valutazioni trovano puntuale riscontro nella realtà.

Per la verità i politici non insistono molto sul tema della possibilità di scalfire i consensi altrui. Del resto basterebbe vedere come vicende imbarazzanti tipo quelle in cui sono incorsi esponenti dei Cinque Stelle non hanno scalfito quasi per nulla le loro percentuali di consenso (ma vale più o meno per tutti i partiti). Piuttosto i vari leader vagheggiano di dar vento alle loro vele recuperando ampiamente nella vasta platea degli astensionisti, stimata, punto più punto meno, attorno al 40% dell’elettorato.

Ebbene qui c’è una osservazione banale da fare. Sostengono i politici che la disaffezione elettorale dipende dal “tradimento” che molti cittadini hanno riscontrato nei vecchi partiti di riferimento: quelli di sinistra non voterebbero più PD perché Renzi è un “centrista”, quelli di destra non voterebbero più FI perché Berlusconi è troppo tiepido e via dicendo. Dunque per riconquistarli basta gridare che la sinistra o la destra sono tornate ed ecco che le belle addormentate elettorali si risveglierebbero al bacio (urlato) dei nuovi principi.

Ma si può davvero credere a questa favola? Per farlo bisognerebbe provare che nelle precedenti elezioni, quelle in cui si è impennato l’astensionismo, non esistevano alternative di presunta vera sinistra o di presunta vera destra, o di presunti veri moderati, ecc. ecc. Questo però non risulta perché in tutte le chiamate alle urne l’offerta politica è stata molto varia e di formazioni “radicali” (perdonino i pannelliani l’uso del nome della loro formazione) ce n’era ampia scelta.

Significa che le urla di tanta parte della politica odierna non sono una strategia, ma la vecchia tecnica di chi nel buio si mette a gridare per farsi coraggio di fronte a quel che non vede. Non proprio un segno di buona vitalità.