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01 maggio 2024
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Un'analisi del voto regionale

Luca Tentoni - 18.02.2023
Fontana e Rocca

Le elezioni regionali nel Lazio e in Lombardia non hanno riservato sorprese rispetto ai sondaggi della vigilia: si sapeva che la Moratti e la Bianchi erano sopravvalutate da un meccanismo di opinione che tende a dare ad un improbabile e fragile Terzo polo più voti virtuali di quanti non abbia effettivamente e che accredita l'immagine di un M5s sull'onda di un successo che forse è solo il wishful thinking di qualcuno. Era inoltre ben noto che la competizione avrebbe premiato la destra (ormai la possiamo denominare così, perché è dominata dalle sue componenti più estreme: in pratica è una sorta di monocolore neomissino con qualche "cespuglio" ridotto alla marginalità). Di qui, il crollo dell'affluenza: ma l'esito scontato spiega troppo e liquida una questione che è ben più profonda e seria. In questo momento il sistema politico è bloccato e senza alternativa: lo sanno anche gli elettori dei partiti che vincono, i quali hanno disertato le urne in misura appena inferiore a quelli delle opposizioni, segno che tanto entusiasmo per il riconfermato Fontana e per Rocca non c'era affatto. In quanto a Sanremo, il solo fatto che nelle analisi del dopo-voto si sia dedicato tempo a correlare il festival col dato delle regionali indica quanta approssimazione e superficialità spinga certi commentatori, forse abbagliati dal "tutto quanto fa spettacolo". Noi, qui, ci basiamo invece sui dati effettivi, sui numeri che non mentono e che ci restituiscono il vero vincitore: il non voto, che vince nel 2023 così come nel 2013 e nel 2018 aveva vinto il M5s, nel 2014 il Pd, nel 2019 la Lega, nel 2022 Fratelli d'Italia. Dopo averle provate tutte e aver constatato l'inconsistenza e la mancanza di prospettiva e di capacità di gran parte della nostra classe politica, gli italiani hanno scelto un'opzione che mantiene subito ciò che promette: l'astensionismo. Il non voto è una scelta razionale, non una casualità. A Roma è stato persino più accentuato che altrove perché la città versa in uno stato a dir poco di grave sofferenza almeno dai tempi della giunta Alemanno: i cittadini della Capitale hanno votato per tutti, ma stavolta hanno scelto l'opzione "nessuno di questi", che è l'exit forse senza ritorno, a meno che non cambi davvero (finalmente) qualcosa. I dati sull'affluenza rendono il quadro dei candidati presidenti e delle liste molto deludente. Salvo Fratelli d'Italia, che guadagna 535 mila voti in Lombardia e 300 mila circa nel Lazio, gli altri crollano: Fi perde 542 mila voti in Lombardia e 241 mila nel Lazio; la Lega rispettivamente 1,077 milioni e 121 mila; il Pd 380 mila e 226 mila; il M5s 820 mila e 427 mila. In Lombardia, gli astenuti sono aumentati di 2,427 milioni rispetto alle politiche e di 2,551 milioni sulle regionali del '18; nel Lazio sono aumentati di 1,458 milioni sulle politiche e di 1,411 milioni sulle regionali '18. Per il resto, i risultati di candidati e di alcune liste si somigliano, fra Lazio e Lombardia, nonostante le regioni siano molto differenti fra loro (tanto per dirne una: nella prima regione il presidente lo scelgono i romani, che rappresentano il 45% dell'elettorato, mentre nella seconda lo scelgono gli abitanti dei paesini e dei comuni non capoluogo, dove vive circa il 78% della popolazione). La destra ottiene - come voti di lista - il 55,3% nel Lazio e il 56,3% in Lombardia; il centrosinistra (senza Terzo Polo e M5s) il 28,7% e il 28,8%. Fontana ha appena lo 0,8% di voti in più di Rocca, mentre Majorino ha solo lo 0,4% in più di D'Amato. La differenza sul non voto l'ha fatta soprattutto Roma: nei comuni non capoluogo della Lombardia l'affluenza è stata del 41,4%, mentre in quelli omologhi del Lazio è stata del 41,1%. È molto simile anche l'andamento delle coalizioni di liste nei non capoluoghi: destra in Lombardia al 60%, nel Lazio al 60,7%; centrosinistra rispettivamente al 26 e al 25. In entrambe le regioni la destra va meglio nei non capoluoghi, dove ottiene l'11,3% (Lazio) e il 17% (Lombardia) in più che nei capoluoghi. Il centrosinistra "stretto" (senza Terzo polo e M5s) ottiene percentuali maggiori - come sempre - nei capoluoghi: +7,9% nel Lazio, +13% in Lombardia. Forza Italia va meglio nelle città minori che nei capoluoghi (Lombardia: 7,6 contro 6; Lazio: 11,4 contro 5,1), così come la Lega (Lombardia, 18,6 a 9,2; Lazio, 10,9 a 5,9). Non è una novità, così come accade al Pd: in Lombardia ha il 20,1% nei comuni minori e il 28,1% (primo partito) nei capoluoghi e nel Lazio ha rispettivamente il 19% e il 21,6%. I candidati presidenti della destra vincono in entrambi i casi con circa il 20% di margine, che però sale al 28% (Lombardia) o al 31% (Lazio) nei comuni piccoli ma scende al 10% nel Lazio nei capoluoghi. In Lombardia, addirittura (grazie a Milano e non solo) Majorino vince nei capoluoghi per 44,4% per 41,3% contro Fontana. Rispetto a cinque anni fa, il presidente lombardo guadagna il 6,8% in periferia e perde lo 0,8% nelle grandi città, segno di un minor insediamento della destra nelle realtà più aperte alla modernità e alla globalizzazione. Majorino, invece, guadagna rispetto a Gori il 4,5% in periferia e il 5,3% nei capoluoghi. In confronto alle politiche, FdI perde il 3,3% in Lombardia ma guadagna il 2,4% nel Lazio; FI perde lo 0,7% in Lombardia ma guadagna l'1,6% nel Lazio; la Lega guadagna in entrambe le regioni. Nella Capitale d'Italia Fi e Lega arrivano a stento al 9%, contro il 33,1% di FdI, prendendo meno voti di un indebolito M5s (57,8 mila contro 64,5 mila). Si potrebbe dire che nel 2018 si votava lo stesso giorno delle politiche e che il crollo di affluenza di questa volta è dovuto anche a questo: vero, ma forse non ricordiamo che anche alle politiche il non voto è cresciuto del 7-8% nelle due regioni (2022 su 2018). Altro che Sanremo.