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Una politica indecifrabile?

Paolo Pombeni - 24.01.2018
Palazzo Chigi e Quirinale

Difficile sfuggire al dovere di parlare di come evolve la sfida elettorale e soprattutto di ciò che ci attende dopo, se, come tutti o quasi credono, ci ritroveremo senza una maggioranza parlamentare di governo. I politici ovviamente non ne trattano, perché questo indebolirebbe la loro propaganda: ciascuno deve far finta che vincerà di sicuro.

Certo è molto complicato ragionare di politica in questo paese dove si sono persi i riferimenti basilari alle normali regole previste dalla politica e dalla Costituzione. E’ banale ricordare la sciocchezza secondo cui il presidente della repubblica dovrebbe dare l’incarico di formare il governo al partito più votato, quando si sa benissimo che è tenuto a darlo a chi risulta in grado di raccogliere una maggioranza parlamentare e di farlo sulla base di quello che gli hanno detto i rappresentanti dei partiti nelle consultazioni che è tenuto a fare. Se veramente dovesse dare l’incarico al leader del partito più votato, potrebbe risparmiarsi le consultazioni: gli basterebbe leggere i risultati che gli passa il Viminale.

Ovviamente può darsi che dalle consultazioni non emerga, almeno nella prima fase, l’indicazione di alcuna maggioranza possibile. E’ in questo caso che il presidente dà un “mandato esplorativo” al politico che ritiene in grado di far ragionare i partiti alla ricerca della maggioranza. In questo caso potrebbe seguire la via di incaricare un leader espresso dal partito che ha ottenuto più voti, ma potrebbe anche decidere diversamente (lo si è fatto in passato varie volte). E’ il caso in cui la libertà di scelta del presidente è massima.

Tuttavia anche in questo caso si tratta di un mandato esplorativo che viene accettato con riserva: significa che il prescelto non va alle Camere a cercare una maggioranza, ma deve farlo in conversazioni informali coi partiti che ritiene interessati. Al termine di questi colloqui torna dal presidente che, se gli porta risultati soddisfacenti (cioè la prospettiva di ottenere la fiducia), gli conferisce un incarico pieno e solo a questo punto può cercare di mettere in piedi un governo e di presentarsi alle Camere per vedere se ottiene o meno la fiducia.

Questo andrebbe spiegato all’on. Di Maio, che, nonostante abbia fatto per una legislatura il vice presidente della Camera, sembra abbastanza digiuno di conoscenze circa regole costituzionali e politiche. Del resto ha provveduto lui stesso a certificarlo quando ha sostenuto, giusto pochi giorni fa, che Gentiloni, siccome è presidente del consiglio, dovrebbe astenersi dalla campagna elettorale o dimettersi. Ora anche il meno informato di regole costituzionali sa che in democrazia i governi sono governi politici e il loro vertice fa politica inclusa quella elettorale. Non solo è sempre stato così in Italia, ma è così in tutti i paesi democratici del mondo.

Purtroppo non solo nel nostro paese le regole e la costituzione sono bellamente ignorate da quello che una volta si definiva “l’uomo della strada” (fin qui sarebbe quasi normale), ma anche da una buona quota di quei formatori di opinione pubblica che sono i giornalisti e in generale i cosiddetti opinion maker. Infatti le sciocchezze che abbiamo citato (ma ce ne sono altre) non vengono neppure rilevate.

Adesso va di moda parlare di un “governo del presidente” nel caso non uscisse una maggioranza dalle urne. Ovviamente con il mandato limitato di governare per i pochi mesi che servono a scrivere una nuova legge elettorale per poi tornare alle urne.

Vediamo però cosa starebbe dietro ad una soluzione del genere. Innanzitutto perché il presidente della repubblica abbia la forza per costringere i partiti a dare una maggioranza ad un governo sponsorizzato da lui bisogna che disponga di qualche arma. Nel 2011 Napolitano poté farlo perché disponeva di due armi notevoli: la pressione economica internazionale che ci stava spingendo al fallimento e la minaccia di sciogliere le Camere in questo clima di naufragio generale. Mattarella avrebbe a disposizione qualcosa di simile? Ne dubitiamo. Nell’immediato la situazione economica non è, per fortuna, così disastrosa (può diventarlo, ma ci vuole qualche tempo). Per sciogliere le Camere c’è bisogno di una nuova legge elettorale, altrimenti ci si consegna nelle mani dell’avventura più incerta.

Aggiungiamoci che, l’ha rilevato Mieli sul “Corriere”, un governo del presidente non può avere una maggioranza risicata, perché sarebbe vittima designata di quel Vietnam parlamentare che saranno presumibilmente le Camere uscite dalla prova elettorale. Certo si potrebbe salvare non facendo nulla se non la più banale delle ordinarie amministrazioni. E già qui c’è la prima difficoltà: davvero qualcuno pensa che si possa fare ordinaria amministrazione con quel che si sta preparando in Europa e nel mondo? Il prezzo sarebbe un colpo mortale al nostro status internazionale con tutto quel che ne segue.

Anche la soluzione del breve periodo per fare una nuova legge elettorale che consenta di andare alle urne è una pia illusione. In un clima di incertezza totale come sarebbe possibile mettere in piedi una legge che forzasse la vittoria di qualcuno a scapito degli altri? Davvero si pensa che i partiti, che sono stati così abili da sfornare una dietro l’altra pessime leggi elettorali, sarebbero ora rinsaviti come per magia?

Aggiungiamoci un dato banale: tornare presto alle urne non è una cosa che piace molto ai parlamentari neoeletti. Significa rischiare di rimetterci il seggio, adesso senza neppure il vecchio vitalizio garantito, e per molti, a cominciare dai Cinque Stelle, non essere rieleggibili per il principio delle due legislature come limite anche quando la seconda è durato pochissimo. A scommettere che i parlamentari eletti il 4 marzo faranno il possibile per non porre fine in tempi brevi alla loro esperienza crediamo si andrebbe abbastanza sul sicuro.