Una politica dell’esasperazione
Sebbene non sembri avere molto successo, la politica punta sull’esasperazione: i toni si alzano in continuazione, si cerca di accreditare un clima da battaglia all’ultimo sangue, ma l’impressione è che il pubblico non si faccia veramente coinvolgere. Al massimo gode di quel cattivo spirito che anima chi guarda dall’esterno gli scontri, giusto per vedere chi vince, ma senza sentirsi parte in causa.
Ciò non deve spingere a sottovalutare i guasti di una simile situazione. Chi si rifugia dietro la considerazione che in fondo sono le solite sparate delle campagne elettorali non coglie la complessità del momento. Il fatto è che, finita la campagna elettorale, non cesserà questo clima di sovraeccitazione (per dirla in forma gentile). Non solo, come è ovvio, si dovranno riassorbire le varie letture che verranno date ai risultati delle urne: non solo quali partiti vincono o perdono, ma come sarà la distribuzione del consenso nei circa 3700 comuni e qualche regione che va in contemporanea alla prova del voto, quali saranno i successi e gli insuccessi dei vari leader di partito. Operazioni che non sono senza tensioni e senza contraccolpi.
Lasciamo in un canto la pur importante questione di come inizierà a prospettarsi la fisionomia della Unione Europea sulla base dei risultati elettorali e anche dell’evoluzione della situazione internazionale (tutt’altro che tranquilla): sebbene sia un affare di grande peso, muove molto relativamente il nostro quadro politico (che farebbe meglio ad occuparsene, ma se non ci sono le capacità c’è poco da fare …).
Finito, si fa per dire, il bailamme delle zuffe elettoral-propagandistiche, saremo impegnati in almeno tre scadenze che prolungheranno, se non addirittura accentueranno il clima di scontri di fazione. Ci sono sul tappeto tre riforme che i partiti politici puntano ad usare per spaccare il paese: il cosiddetto premierato, l’autonomia regionale differenziata, la riforma della magistratura. Se si usasse la ragione dell’interesse generale anziché il gusto per la prova di forza settaria sarebbe possibile trovare su tutti e tre questi temi delle soluzioni equilibrate, che non definiamo di compromesso, perché purtroppo il termine nel nostro sentire ha assunto un significato negativo. Invece su tutte e tre si punta allo scontro, convinti che sia roba da decidere con un colpo d’accetta appellandosi alla presunta volontà popolare, la quale in realtà su temi tanto delicati è per lo più il sentimento di pancia di chi si fa irretire da uno slogan o da un altro.
Sul premierato, l’abbiamo già scritto, ci sarebbe tutto lo spazio per trovare una mediazione che metta insieme le istanze di chi vuole sottrarre la dinamica della formazione dei governi ai tatticismi (per non dire talora ai maneggi) dei gruppi parlamentari e le giuste preoccupazioni di chi non vuole avere un sistema plebiscitario che è foriero di crisi sociali ogni volta che esprime una soluzione che non regge nel tempo e che può essere soggetta agli umori irrazionali dominanti al momento del voto.
La via d’uscita è possibile, il modello che adatta lo schema del cancellierato tedesco è sul tavolo, si possono trovare i modi per rafforzare la capacità del Quirinale di arbitrare gli scontri distruttivi. Una riforma in quest’ottica che possa avere la maggioranza dei due terzi evitando un referendum che spaccherebbe inutilmente il paese è davvero nell’interesse generale.
Anche sulla questione dell’autonomia regionale differenziata è possibile, con molta buona volontà, destrutturare una legge che sa tanto di creazione di repubblichette locali senza senso, per creare le modalità per avere poteri regionali che possano operare là dove hanno le capacità e le competenze senza ledere i principi di eguaglianza che sono propri della cittadinanza nazionale. Insistere sulle bandierine leghiste ci porterà di nuovo alla richiesta di un referendum (anche se si tratta di una legge ordinaria) e di un clima che, come mostra qualche sondaggio, spaccherà il paese tra Nord e Sud, il che è quasi peggio della spaccatura trasversale in due.
E veniamo alla riforma della magistratura. Anche qui il tema da ultima spiaggia agitato dal sindacato della magistratura e cavalcato dalle fazioni politiche (nonché dagli agitatori sui media) ci sembra fuori luogo. Innanzitutto sarebbe bene evitare l’argomento secondo cui la separazione delle carriere è un vulnus alla Costituzione: tanto il sistema vigente che le unisce in un solo “corpo”, quanto quello che vede due funzioni separate fra magistratura inquirente e magistratura giudicante sono soluzioni razionali all’interno del costituzionalismo occidentale. Si può ben sostenere che le tradizioni hanno un peso e che razionalizzare quella che abbiamo anziché capovolgerla presenta dei vantaggi. Di nuovo, una soluzione più che ragionevole è già stata trovata con la riforma Cartabia, che sarebbe bene affinare anziché mettere da parte.
I magistrati in primis e tutte le forze politiche e intellettuali di questo paese dovrebbero spingere per individuare una riforma condivisa, piuttosto che alzare barricate ed emettere proclami bellicosi come si sta facendo. Creare una contrapposizione tra due partiti artificiali, quello pro magistrati e quello che vuole rifondare la magistratura, sarebbe una pessima soluzione, perché costituirebbe un ulteriore passo verso la trasformazione di quello che era definita “la repubblica dei partiti” in quella che sarà “la repubblica delle fazioni” (non solo politiche, ma anche corporative).
Quale giovamento può trarre il nostro Paese che dovrà misurarsi con i grandi e gravi problemi di una complessa transizione sia sul piano interno (economico e sociale) sia a fronte di una tumultuosa situazione internazionale? La domanda va rivolta a tutte le “tribù” in campo, ma particolarmente a chi nel sistema dei media continua a promuovere la tragica farsa di propagandisti delle varie corporazioni o anche dei loro disinvolti desideri di pubblicità che si azzuffano per compiacere la voglia di spettacolo di chi ai problemi seri non vuole pensare proprio.