Una modesta proposta. Se scuola e università sono campo di battaglia per estremismi opposti.
In una recente intervista su “Il Manifesto”, Valeria Pinto, autrice un paio di anni fa di un volume non esattamente benevolo sul sistema di valutazione universitario (Valutare e punire), ha lanciato un deciso attacco alle linee guida della futura (cosiddetta) riforma Renzi della scuola. La Pinto enfatizza il carattere classista di un provvedimento apparentemente in linea con il processo ormai quasi ventennale di appiattimento dell’istruzione sulle esigenze dell’economia neoliberista e di debellamento delle sue dinamiche di democrazia interna: “il sistema del merito emana, rafforzandolo, dal riconoscimento della giustizia e dell’evidenza dell’ordine sociale esistente”.
Entia non sunt moltiplicanda: perché prendersela con una valutazione che non c’è?
Sarebbe quantomeno prudente, parlando della rivoluzionaria non-riforma ventilata dal nuovo esecutivo, mantenere un po’ di prudenza. Soprattutto considerato che, a parte qualche slide e molti slogan (in primis, quello dei 150.000 precari da assumere d’un botto a partire dal prossimo anno scolastico), di misure concrete e dettagli non del tutto irrilevanti (come le previsioni di spesa) si è parlato sinora poco. In effetti non è chiaro in base a quale presupposto si possa affermare che la non-riforma sia l’ennesimo passo verso la liquidazione della scuola pubblica come luogo di sapere critico. Di quale sistema di selezione e premiazione del merito stiamo parlando?
I governi e i ministri dei Istruzione e Ricerca hanno concionato tantissimo sulla necessità di valutare e premiare, negli ultimi vent’anni, ma si sono preoccupati poco di perseguire realmente queste pratiche discorsive. Per quanto riguarda l’Università italiana, ci sono poche verità più evidenti del fatto che essa funzioni male (o non funzioni affatto) non perché si è puntato troppo su valutazione e merito, quanto perché si è applicata poco. Nonostante molti sforzi, e un primo punto di partenza dai nobili intenti, come l’Abilitazione nazionale, nel mondo dell’istruzione superiore e della ricerca merito e qualità non sono ancora discriminanti come dovrebbero essere. Che si lavori molto e bene, si pubblichi su riviste internazionali prestigiose e si attirino congrui finanziamenti, o si tiri a campare curando atti di seminario per lo stampatore sotto casa, le ricadute sono scarse in termini di riconoscimento e nulle sul piano della carriera. D’altra parte, chiunque abbia mai lavorato in un istituto secondario, sa come qualità e merito siano categorie dello spirito sconosciute alla misteriosa logica con cui l’Istruzione gratifica i suoi insegnanti: si premia l’accumulo di moduli sui programmi pedagogici e la capacità di decrittare i bandi ministeriali ricolmi di progetti inutili, non certo il professore che pubblica saggi di letteratura greca o trasmette agli studenti le competenze acquisite durante un dottorato in chimica. E tuttavia, in tale deserto del merito, i militanti della lotta-sempre-e-comunque-contro-il-neoliberismo-dominante trovano materia per bandire le loro crociate.
Contrapposti manicheismi
Ciò che appare più sconcertante in questo radicalismo (di cui il libro della Pinto è un manifesto di ottimo livello) è il connubio tra un raffinato impianto teorico, alcune osservazioni di buon senso perfettamente condivisibili e un insopprimibile manicheismo ideologico. Al buon senso appartiene, per dirne una, il rilievo dato all’appiattimento delle retoriche pubbliche sulla funzione della scuola (e dell’università) come servizio di apprendistato per le aziende. Una sciocchezza talmente grossolana, in un mercato del lavoro moderno e in perpetuo divenire, da portare a credere che chi se ne riempie la bocca (persino dalle parti di Confindustria se ne sono disfatti) non abbia la minima idea dello scopo dell’istruzione in genere, e della formazione superiore in particolare. Solo chi non ha ancora capito di vivere nel XXI secolo può pensare che scuole e università servano a “insegnare un mestiere”. Al manicheismo ideologico rimanda invece il rifiuto di fare i conti con i motivi che hanno reso necessario puntare su una selezione di insegnanti e ricercatori molto più rigorosa che in passato. E’ appena il caso di notare che chi attacca frontalmente il principio della valutazione non ritenga opportuno dedicare qualche parola al concreto declino della qualità dell’istruzione e della ricerca italiana. Che non dipende solo dai continui e improvvidi tagli e dal conseguentemente invecchiamento precoce (anagrafico ma ancor prima mentale) degli insegnanti. Anche se le classifiche internazionali sul ranking universitario si basano su criteri a volte discutibili, e benché i test come l’OCSE-PISA possano non essere inappuntabili, rimane il fatto che la qualità complessiva del sistema istruzione e ricerca di questo paese non versa in condizioni di gran salute. Di chi è la colpa? Forse, anche di quel sistema di cooptazione clientelare e feudale che ha trasformato molti dipartimenti universitari in uffici di collocamento per portaborse. O dello stillicidio di immissioni in ruolo “sul campo”, a base di lunghi anni di corsi abilitanti e promozioni in massa, che ha devastato il corpo insegnanti. Su quest’ultimo punto, bizzarramente, i contrapposti manicheismi per eterogenesi dei fini: il nullismo della non-riforma renziana e la crociata anti valutazione sosterranno a braccetto nuovi assunzioni collettive senza qualità solo per amore del consenso?
* Professore a contratto Università di Padova
di Paolo Pombeni
di Novello Monelli *
di Stefano Zan *