Una legge elettorale per il paese o per i partiti?
Che fine farà l’accordo in base al quale il PD ha cercato di salvarsi l’anima accettando il diktat dei Cinque Stelle sull’approvazione secca della riduzione del numero dei parlamentari? In questo momento ecco la domanda delle domande, perché non si capisce se l’accordo sottoscritto su un documento molto generico alla vigilia del voto parlamentare porterà davvero ad una riforma del nostro sistema elettorale che possa avere delle reali possibilità di razionalizzare la fase confusa in cui vive la politica italiana.
Ci sono due modi per affrontare la questione. Il primo è quello che sembra prevalere in questo momento, cioè muoversi nell’ottica di quel che serve agli attuali partiti in lotta. Ci porterebbe quasi di sicuro ad una nuova “porcata” più o meno in stile Calderoli. Il secondo è quello di mettersi nell’ottica di cosa servirebbe al paese, ma temiamo che su questo punto stiamo ragionando puramente di fantasia.
I partiti hanno interessi confliggenti, che non sono semplicemente quelli del governo e dell’opposizione o della destra contro la sinistra. Sono pulsioni trasversali. In estrema sintesi, ci pare abbiano due obiettivi su cui, sia pure per vie tortuose, convergono. Da un lato devono decidere se convenga o meno mettere un freno alla proliferazione dei partiti, il che banalmente significa agevolare o meno le scissioni correntizie e la voglia di protagonismo dei vari personaggi che popolano la scena politica. Ovviamente i vertici dei partiti optano per rendere ardua la frammentazione, gli appetiti di capi e capetti non la vedono così male. Il sistema in questi casi non può che essere proporzionale, mentre il meccanismo con cui gestire il problema è la soglia di sbarramento, che può essere esplicita (fissata dalla legge) o implicita (dipendente dal modo con cui si costruiscono i collegi). E già questo sarà un tema di scontro perché i partitini già esistono in questo parlamento ed hanno i loro poteri di ricatto. Dal lato opposto c’è il tema di come si può forzare la costruzione di maggioranze di governo già attraverso il sistema elettorale, garantendosi che il parlamento che si va ad eleggere non sia il campo per agguati continui all’esecutivo che entrerà in carica. Anche qui in definitiva il tema è solo quello di favorire o di costringere la formazione di coalizioni da sottoporre direttamente agli elettori a cui spetterà di renderle blindate. Si può discutere se si può farlo subito, contestualmente alla prova delle urne, magari con premi di maggioranza, o in fasi successive, cioè prevedendo un secondo turno che può essere quello del maggioritario a due turni, oppure un nuovo tipo con cui si chiede ai partiti, una volta conosciuta la distribuzione dei voti nella prima tornata, di decidere se e come coalizzarsi per rimandarli così davanti agli elettori che sceglieranno la coalizione di governo.
Le varianti sono moltissime e c’è da aspettarsi che l’inventiva della politica italica ne metterà in campo un buon numero. Per illustrare i pro e i contro di tutte queste si dovrebbe scrivere un saggio assai corposo, e non sarebbe abbastanza, perché la realtà è poi così multiforme, specie di questi tempi, che è impossibile prevedere in laboratorio come potranno funzionare i marchingegni inventati.
Resta il fatto che tutti questi ragionamenti sono fatti nell’ottica dei partiti e non del paese. Se si ragiona da questo punto di vista il grande tema è cosa vogliamo rappresentare con la scelta dei parlamentari. Togliamo di mezzo l’equivoco che si voglia dare rilevanza alle “ideologie”, per la semplice ragione che di quelle, in senso proprio, non ce ne sono più come incarnazione in specifici partiti. Dunque si deve dare rappresentanza a due cose che debbono convivere: progetti politici di gestione delle problematiche presenti che si incarnano in persone che possono essere ragionevolmente credibili come loro gestori.
Questo comporta alcuni problemi che sarebbe bene discutere con chiarezza. Il primo è come garantire al massimo possibile che gli elettori possano prima valutare e poi controllare questo complesso obiettivo. Significa dare la massima attenzione alla formazione dei collegi, ma anche impedire che gli elettori possano essere manipolati: in concreto, limiti e regole rigorosi sulle spese elettorali e sulla propaganda, e divieto assoluto delle multi candidature. Altrimenti tutto sarebbe ridotto ad un referendum nazionale, guidato da TV e social media, sui partiti, cioè sui loro vertici, a cui è data carta bianca per gestire poi quel che verrà dopo le urne.
Il secondo problema è favorire una rappresentanza il più articolata possibile. Qui sta il tema, ostico per le forze politiche, della differenziazione di funzioni fra le due Camere, a cominciare dalla riduzione del conferimento della fiducia al governo ad una sola di esse. Solo questo infatti consentirebbe di evitare la deleteria tesi della necessità di avere due Camere fotocopia, perché altrimenti non si sa come fare ad evitare crisi di governo anomale. Solo liberando la seconda Camera dal compito di dare la fiducia al governo si può ottenere il risultato di liberare la seconda lettura dei progetti di legge (in sé un passaggio non disprezzabile) dall’attrazione immediata nei gorghi delle lotte pro o contro il governo e le sue varie componenti. Inoltre forse a quel punto si potrebbe pensare a meccanismi diversi sia per la durata delle due Camere, sia per la selezione dei suoi membri (per esempio non sarebbe male in questo caso avere per esempio un proporzionale con sbarramento alto per la Camera, e un maggioritario a doppio turno per il Senato).
Questi ultimi sono ovviamente sogni ad occhi aperti, che però, soprattutto su un piccolo periodico on line, possiamo anche permetterci di fare.
* Studioso di storia contemporanea
di Massimiliano Trentin
di Michele Iscra *
di Francesco Provinciali *