Una fine d’anno impegnativa
Da vari punti di vista l’attuale congiuntura complessiva non va male per il governo. Certo la sua propaganda gonfia un poco i dati, ma fa parte del gioco. Prendete la vicenda del PNRR. Abbiamo ottenuto le revisioni richieste, le tranche arriveranno, non sono alle viste conflitti con Bruxelles. È il frutto senz’altro di un lavoro abile del ministro Fitto e dei vari uffici ministeriali (è un po’ deprimente che nessuno riconosco il lavoro positivo di una parte almeno della burocrazia pubblica, mentre quasi tutti sono pronti a darle addosso per indubbie inefficienze di altre componenti).
I risultati positivi sono stati però agevolati da una sorta di … mal comune. Praticamente tutti gli stati che hanno avuto finanziamenti hanno rinegoziato piani che erano stati preparati non solo con una certa fretta, ma anche in fasi diverse da quelle che si sono succedute dalla pandemia in poi, per cui diventava difficile per gli uffici della Commissione UE mettersi a fare i severi maestrini. In più in fase ormai pre-elettorale, con scossoni non proprio insignificanti all’interno di vari stati membri, sarebbe stato autolesionista mettersi a fare i rigoristi con il governo italiano, il quale, al contrario delle aspettative, si è mostrato consapevole del quadro complessivo in cui doveva muoversi.
È stato notato che la buona accoglienza del governo tedesco alla missione a Berlino della nostra premier segnala un certo realismo nelle cancellerie europee. Questo non significa che da quelle parti non sappiano che tutto è ancora in un equilibrio precario, perché da personaggi come Salvini ci si può aspettare di tutto, ma anche perché su alcune questioni il corporativismo straccione è ancora all’opera (si veda la faccenda dei balneari, ma anche la difficoltà di sganciarsi dalle “code” perverse del superbonus edilizio).
Sul fronte sociale la situazione è almeno apparentemente di relativa tranquillità. L’affondo del sindacalismo di battaglia di Landini e Bombardieri non sembra stia dando grandi risultati alle strategie dei loro proponenti. Certo in quella grande commedia delle maschere che per tanti versi rimane ancora la politica italiana ogni messa in scena ha il suo pubblico, ma non si va oltre.
C’è qualche segnale di inquietudine in alcuni settori legati agli equilibri di una stagione che al momento è passata: nell’informazione l’approccio radical-militante è ancora molto forte da una parte e dall’altra; alcuni, anche personaggi di peso come il ministro Crosetto, paventano il risorgere di una magistratura di opposizione. La nostra impressione è che la gente si stia stufando di questa eterna ripetizione del teatrino politico, sebbene ciò si traduca, paradossalmente diremmo, in un maggiore spazio per le repliche dei vecchi spettacoli, che si impongono nel vuoto lasciato dal largo disinteresse crescente per la politica.
Eppure di ragioni per riprendere in mano il confronto ce ne sono parecchie. Il primo problema è il peso del nostro mostruoso debito pubblico che pesa su tutti noi in termini di interessi da pagare, sia direttamente per esso, sia meno direttamente per ottenere finanziamenti per il nostro bilancio in deficit. È la corda che ha al collo il nostro sviluppo. Non si dimentichi che se si vuol affrontare il problema dell’incremento di salari e stipendi, un tema sempre più centrale per la sopravvivenza del ceto medio e medio-basso, bisogna necessariamente rompere la stagnazione, quella effettiva, ma soprattutto quella attesa, che è quanto impedisce ai datori di lavoro di aprire i cordoni della borsa (dove i profitti sono andati più che bene come nelle banche gli accordi sigli aumenti salariali sono arrivati …).
Non ci stancheremo di ripetere che per avere risultati su questi terreni bisogna promuovere una rivoluzione culturale che ricostruisca un terreno di matura solidarietà a livello di sistema. Sappiamo che è un cambio di passo che comporta dei rischi (ciascuno teme di essere il solo disposto a fare il ragionevole favorendo così il suo avversario), che deve superare l’avversione di tutti quelli che perderanno i loro pulpiti e le conseguenti rendite di posizione, che è reso ancor più difficile in un contesto molto frammentato a molti livelli, politici, sociali, geografici. Ma è un cambio di passo che va fatto.
Al governo, ma vorremmo dire alla presidente Meloni, tocca metterci mano, decidendo con chiarezza, pur nei termini consentiti dalla politica, che non è tempo di bandierine da piantare, ma di risultati da ottenere. Inizi simbolicamente a smontare la trappola della concomitanza fra autonomie differenziate e pasticcio premierato: si possono benissimo affrontare i temi di un maggiore spazio alle capacità di governo regionali (dove ci sono) e di una seria revisione della posizione del presidente del Consiglio (stava già nel “decalogo Spadolini” del 1982!) senza ridurre queste riforme a scalpi da esibire per vittorie di parte.
Va fatto presto, perché nel fuoco delle campagne elettorali e con i molti temi che ci presenterà il quadro internazionale (a cominciare dalle elezioni presidenziali negli USA) sarà quasi impossibile metterci mano una volta che i contesti siano mutati. E si sa che in politica di miracoli se ne vedono raramente.