Un’attesa non troppo snervante?
Ciò che colpisce nella marcia verso il nuovo governo è lo scarso pathos con cui in sostanza è vissuta dalla pubblica opinione. In astratto ci sarebbero tutte le caratteristiche per definire questo passaggio come epocale, a partire dall’arrivo alla ribalta di una nuova classe politica che rappresenta pur sempre un terzo dei consensi elettorali espressi la quale si unisce ad un’altra componente, non esattamente esordiente, ma che esce dalla relativa marginalità geografica in cui aveva le sue radici. Anche il crollo di quello che era stato l’assemblaggio delle componenti critiche della prima repubblica e che bene o male era stato un perno della seconda repubblica rappresenta pur sempre una svolta che dovrebbe suggerire qualche preoccupazione.
Invece quel che si vede è una sorta di bomaccia delle Antille, per prendere a prestito una immagine letteraria. Certo i giornali e le TV ricamano sulle schermaglie dei partiti e danno palcoscenico a tutti, compresi personaggi minori che parlano solo in virtù di legami che stabiliscono con giornalisti o conduttori compiacenti. Chi vive nella vita reale non coglie però significativi rimbalzi di queste trame nella psicologia collettiva: gli italiani attendono, non si sa se pazienti o distratti, di vedere come andrà a finire la bagarre in atto fra i professionisti della politica.
Eppure le questioni non sono tutte banali: dal reddito di cittadinanza alla flat tax sono progetti che, ove realizzati, inciderebbero non poco sul quadro sociale. Certo altre questioni, tipo le sanzioni alla Russia, non rientrano fra quelle che scaldano i cuori, ma almeno quella relativa alla posizione di Berlusconi un tempo era nell’elenco di ciò che faceva scintille. Oggi si proclama che ciò sia ancora vero per la gran parte dell’elettorato Cinque Stelle, ma scarseggiano le verifiche empiriche della verità di questo assunto.
Un altro elemento che non può sfuggire è l’astensione dalla contesa di quelli che con qualche approssimazione si usavano chiamare “poteri forti”. Non si vedono filtrare preoccupazioni sulla grande stampa o attraverso altri canali e i mercati si mantengono tranquilli: nulla di paragonabile a quel che avvenne per esempio ad inizi anni Sessanta con l’andata al governo dei socialisti nei primi esecutivi di centrosinistra, che pure segnavano un mutamento di quadro molto minore.
Come si spiega tutto questo? Si può solo cercare di indovinare. La prima spiegazione che ci viene in mente è che la radice profonda del cambiamento elettorale del 4 marzo stia piuttosto nella voglia di togliersi lo sfizio di mandare al diavolo le classi politiche dominanti che non nella scommessa su un cambio di passo: che questo poi avvenga davvero sembra venir guardato con scetticismo. I pasdaran delle varie fazioni per ora si accontentano di liturgie che non hanno abbandonato i vecchi slogan e gli stereotipi usurati. I partiti si mantengono ufficialmente fedeli a quelli e tanto per ora basta.
Poi c’è il problema, ben più spinoso, degli apparati burocratico-amministativi che, per ovvie ragioni, non sono toccati dai cambiamenti elettorali. Le classi dirigenti della società confidano in questi per una tenuta del sistema che può al massimo permettere sceneggiate a pro del pubblico, ma incapaci di incidere sull’assetto profondo del nostro sistema di equilibri (o, più correttamente, di disequilibri ormai accettati).
Infine c’è una certa confidenza nella persistenza del sistema di relazioni internazionali nel quale siamo inseriti (Europa, ma non solo). Anche qui qualche intemerata sovranista viene accolta con una alzata di spalle e ci si consola ricordando la vicenda di Tsipras in Grecia, che venne eletto perché prometteva di far fuoco e fiamme per impedire la vittoria dell’odiata burocrazia europea, ma che poi governò con ben più miti pretese accettando le limitazioni imposte.
Dunque, come suol dirsi, business as usual? Concludere in questo modo sarebbe farisaico. Si può senz’altro tirare avanti qualche mese senza aspettarsi il sorgere di isterie collettive. Intanto ci si può sperimentare a riproporre il sempiterno mantra dell’italico stellone che ci protegge da ogni male. Si sa bene che è una vuota retorica consolatoria, ma intanto aiuta ad ingannare l’attesa. In alternativa si può scommettere su Mattarella, a cui si chiede il miracolo di rattoppare una tela piuttosto sfilacciata.
L’impressione è che a livello sociale ci si aspetti che il cambiamento, se ci sarà davvero, sia più superficiale che profondo e che accada quel che altre volte è accaduto, cioè che i nuovi vincitori abbiano bisogno di appoggiarsi sulle conoscenze e competenze presenti nel sistema e che dunque siano disponibili a far spazio a loro. Un po’ di show e di fuochi d’artificio a pro del pubblico dei fan non inciderà più di tanto.
Sarà davvero così? Non è detto, perché dipende da quanto la transizione potrà essere incanalata in un contesto almeno relativamente senza strappi laceranti. Perché la vera incognita è questa: un cambiamento di questo tipo necessita di una buona sapienza politica, o almeno sufficiente a capire che lo sfogo di un momento contro un sistema ritenuto ormai poco affidabile non è da solo un fondamento sufficientemente solido per una nuova fase politica.
di Paolo Pombeni
di Stefano Zan *