Un paese di fronte alla sua crisi politica
Che interpretazione dare dello tsunami elettorale che domenica 4 marzo 2018 si è abbattuto sull’Italia? In verità le interpretazioni che si sono susseguite in questi giorni sono convergenti: segnano il rigetto da parte di una metà abbondante del paese delle filiere che hanno prodotto nell’ultimo ventennio le classi dirigenti della politica italiana. Parliamo di filiere più che di partiti, perché altrimenti non si comprenderebbe perché il PD, che è stato connotato da una stagione di “rottamazione”, abbia pagato un prezzo così alto. In realtà quel partito aveva sì rottamato un po’ di vecchi leader e loro seguaci (prontamente corsi a farsi un loro partitino clamorosamente fallito), ma i nuovi erano prodotti di quelle stesse filiere ed avevano subito da quelle ereditato modalità, stili di comportamento e chiusure nei circoli consacrati.
Non stupisce dunque che il principale beneficiario della reazione a quel “sistema” sia stato il Movimento Cinque Stelle, dove, pur con molte limitazioni, chiunque poteva buttarsi a guadagnare un posto in politica solo che fosse capace di disporre di un numero modesto di sostenitori nelle selezioni in rete (un obiettivo alla portata di molti se non di tutti). Abilmente, va riconosciuto, la dirigenza del movimento ha coronato l’esplicitazione di questo messaggio con la presentazione della sua ipotetica squadra di governo. Lasciate perdere quanto l’operazione avesse o non avesse senso e fondamento nel nostro sistema costituzionale. Era un messaggio chiaro agli elettori: guardate, noi promuoviamo ministri degli sconosciuti, peraltro qualificati a livello di titoli non meno di quelli noti che mettono in campo i partiti tradizionali. Dunque apriamo una stagione di mobilità politica.
Qualche perplessità potrebbe presentare l’applicabilità di questo discorso alla Lega, che ha una storia ventennale di presenza in parlamento. Si sarà però notato che questa storia non coinvolge Salvini, che fa di tutto, nell’abbigliamento come nell’eloquio, per far percepire la sua estrazione da ambienti diversi da quelli di palazzo, e molti degli uomini e donne (poche queste ultime) che si sono fatti esibire sui palcoscenici mediatici.
Queste forze hanno poi indirizzato agli elettori due “narrazioni” del tutto congruenti con la pretesa di segnare il distacco dalle classi dirigenti espresse dalle filiere tradizioni: la causa dei guai in cui è finito il paese è nell’ostinazione di queste ultime a non volere un cambiamento radicale che pure, secondo queste narrazioni, era più che possibile. Dunque niente Europa (poi corretto in poca Europa, ma strizzando l’occhiolino e facendo capire che si vedrà), niente austerità, cambiamento radicale di stile di governo (come? Meglio non chiedere troppi particolari).
La presa di questi messaggi c’è stata e queste forze hanno ottenuto successi. Definitivi? Non è ancora certo, ma tali da suonare come conferme che ormai si sarebbe andati nella direzione indicata da loro. Quella opposta, cioè il realismo di un lavoro lento e accurato per rimettere in carreggiata il sistema paese, ha trovato adesione appena in un quarto scarso dei votanti.
Perché si ritiene che quella via non porti risultati, o li porti con sacrifici troppo pesanti, mentre ci si illude che esistano scorciatoie? Anche, ma, se si vuole essere onesti, non solo. Qui si torna al problema iniziale: il fallimento delle filiere di selezione delle classi politiche a cui affidare l’arduo compito di percorrere quelle strade difficili. Girarci intorno non serve, perché il gruppo dirigente del PD e soprattutto il suo segretario non sono stati in grado di presentare né una squadra né una narrazione all’altezza della difficile contingenza con cui dovevano misurarsi.
Renzi è afflitto dalla sindrome di Napoleone o, più banalmente, da quella del giocatore di poker: bisogna sempre rilanciare e insistere sulla propria immagine messianica. Quando ha in extremis ripiegato un po’ sull’elevazione di Gentiloni e del suo governo a nuovo simbolo del riformismo costruttivo, l’ha fatto di malavoglia (era anche troppo evidente) e del resto con l’handicap di lasciar intendere che si trattava semplicemente del proseguimento dei risultati del suo governo (anche qui qualcosa facilmente percepibile).
Il dato impressionante è che neppure di fronte all’esito assai negativo dell’operazione Renzi ha capito che era necessario prendere atto della crisi di transizione in cui versa l’Italia e di conseguenza smetterla con la strategia da partita di poker: rilanciare fingendo che le carte migliori restassero nelle sue mani e che gli avversari vendessero fumo sicché poi si sarebbe “andati a vedere” e a quel punto tutto sarebbe diventato chiaro.
In realtà si dovrebbe capire che la partita per quella che, seguendo una moda, potremmo chiamare la terza repubblica è appena cominciata e che la questione di fondo riguarda il recupero delle capacità di incidere su una situazione che rimane piuttosto difficile e che non ci consente scorciatoie. Un’operazione che non si fa imponendo i propri cortigiani e snobbando il ricorso alle forze vitali del paese, che sono anche quelle che sinora non si è stati capaci di coinvolgere nell’operazione di riforma del sistema.
I risultati elettorali del 4 marzo fotografano un paese in crisi che cerca sicurezze in chi offre risposte decise alle crisi percepite. Si può dubitare che queste offerte siano all’altezza di risolvere i problemi in campo, ma si deve prendere atto di quale è la domanda che i cittadini pongono alla classe politica. Se si ritiene che sia pericoloso credere che la credibilità derivi dalla sicumera con cui si promettono soluzioni, allora bisogna controbattere offrendo alta qualità di personale politico dotato di credibilità e capace di farla percepire. Non esattamente quello che è stato in troppi casi dai gruppi dirigenti della coalizione di centrosinistra.
di Paolo Pombeni