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17 aprile 2024
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Un paese di creduloni?

Paolo Pombeni - 10.01.2018
Renzi, Salvini, Grasso e Berlusconi

Tutti o quasi si interrogano sulla stranezza di questa campagna elettorale in cui la corsa a chi la spara più grossa sta diventando spasmodica. Non che in assoluto sia una novità quella delle esagerazioni in campagna elettorale, ma sinora non ci era spinti tanto avanti, o meglio le stramberie erano state lasciate a personaggi di seconda fila ed a partiti tutto sommato marginali. Una generalizzazione sfrontata del fenomeno non si era ancora vista. In più questa volta c’è il patente disprezzo dell’invito più che sensato del presidente della repubblica a mantenere la propaganda in confini accettabili e a non avventurarsi in proposte che non hanno fondamento nella realtà.

Ce n’è dunque abbastanza per chiedersi cosa sia mai successo. Soprattutto la domanda che ci pare nessuno si sia fatto è come mai tutte le forze politiche siano convinte di trovarsi di fronte ad un paese di creduloni disposti a bersi qualsiasi favola si ammannisca loro. Naturalmente è piuttosto incredibile che ci si sia convinti che ormai l’opinione pubblica sia incapace di percepire il sentore di fantasia scatenata che produce proposte la cui realizzabilità è immediatamente sospetta.

E allora? La faccenda è, a nostro giudizio, seria e merita qualche riflessione. Dobbiamo partire dallo scomporre il problema, perché i target, come dicono i pubblicitari, sono molteplici e il medesimo linguaggio ha effetti diversi ai diversi livelli.

Per un’ampia fascia di popolazione le proposte elettorali sono a priori da considerarsi come le classiche promesse da marinaio: espressioni di buone intenzioni e di momentanei moti dell’animo a cui poi non seguirà nulla, perché sono i ritmi della navigazione successiva a determinare quel che si potrà o non si potrà fare. Questi settori dell’opinione pubblica non credono affatto che si potrà abolire la legge Fornero, introdurre una flat tax, varare il reddito di cittadinanza o simili, abolire il canone Rai e le tasse universitarie e via dicendo. Prendono semplicemente queste intemerate come una indicazione su “quel che ci piacerebbe fare se si potesse” e dunque servono per valutare la “bontà d’animo” dei vari proponenti. In sostanza li si decodifica come volontà di venire incontro a problemi concreti: incrementare il reddito disponibile ai cittadini, fare qualche manovra per soddisfare la domanda di cambiamento nella gestione degli affari pubblici. In che modo, si vedrà poi e certo in termini ben più modesti di quelli promessi.

La raccolta del consenso in queste fasce avviene sulla base di queste decodifiche, cioè in sostanza si punta a creare una “simpatia” per il “tono” delle proposte più che per il contenuto. In maggioranza fidelizza chi è già incline a considerare affidabile per la difesa delle sue aspettative il partito che si lancia nelle mirabolanti promesse elettorali. Certo si potrebbe pensare che ci sia poi un effetto di delusione che subentrerà quando si toccherà con mano che quanto promesso viene subito accantonato nella pratica, ma l’esperienza ci mostra che ciò avviene in misura molto relativa. La vicenda dei Cinque Stelle è lì a dimostrarlo: l’elettorato rimane fedele nonostante tutte le dimostrazioni di scostamento fra propaganda e realtà, proprio perché sin da principio era consapevole che si votava per la fantasia e si accettava a priori che tanto non si sarebbe potuto fare quasi nulla di ciò che si era promesso.

C’è poi una altra quota di elettorato che invece è formata di persone che non hanno gli strumenti analitici per vagliare le proposte che vengono avanzate e che quindi può effettivamente credere a qualsiasi cosa. Prendete la proposta di Grasso di abolire le tasse universitarie come in Germania o come voleva Corbin in Gran Bretagna. Nessuno si prende la briga di spiegare che in Germania l’università è quasi gratuita ma ha filtri di ingresso molto severi e soprattutto espelle subito gli studenti che non stanno al passo con i tempi di studio: lì i fuori corso non esistono.

Cosa succederebbe in Italia con l’università totalmente gratuita, a prescindere dalla questione del vantaggio per i più abbienti? Un’iscrizione in massa (tanto è gratis), scarsa possibilità di mettere filtri all’ingresso (già adesso la polemica sul numero chiuso è alle stelle), pratica impossibilità di espellere gli studenti che non stanno al passo (immaginate già il solito mito: e gli studenti lavoratori?). Risultato: università che scoppiano con mancanza di aule, carenza di docenti, competizioni al ribasso fra gli atenei.

E’ solo un esempio, prendendo in carico una questione marginale e una proposta che viene non da uno dei demagoghi di turno, ma da una persona che per storia e carica ricoperta dovrebbe sapere di cosa parla.

Che senso ha proporre interventi molto difficili se non impossibili contando sulla incapacità di una quota almeno di elettorato di verificare i termini reali delle questioni (e lasciamo perdere di valutare se magari non sono in grado di farlo gli stessi che li prongono …)? La risposta è semplice: in una lotta all’ultimo sangue in cui ci si batte per ogni voto perché può diventare decisivo (soprattutto nei collegi uninominali) e in cui c’è la speranza di scalfire almeno il blocco dell’astensionismo non si va tanto per il sottile.

Il problema è che strategie di questo tipo non sono certo senza costi. Il più banale è la distruzione della possibilità di competizioni politiche che si basano sul controllo reciproco della credibilità delle classi dirigenti, cioè la messa in discussione del meccanismo di base della democrazia. Il meno avvertibile, ma di grande importanza, è la distruzione della nostra credibilità come paese a livello internazionale: un patrimonio che, non stanchiamoci di ricordarlo, ha la sua importanza.