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Un nuovo sistema politico?

Paolo Pombeni - 04.11.2020
Anziani in quarantena

Forse non meraviglierà quelli che hanno continuato a dire che dopo l’epidemia nulla sarà più come prima, ma una qualche riflessione su quello che sta avvenendo in questa nuova fase della pandemia varrebbe la pena di farla. Non si tratta di fermarsi a valutare i vari scivoloni compiuti dal governo, come è stato con l’assenza di organizzazione realistica della ripresa d’autunno, o di sottolineare le trovate cervellotiche di qualche governatore che voleva limitare drasticamente le libertà delle persone dai 70 anni in su, dimenticando che le libertà personali non sono comprimibili nel nostro sistema costituzionale se non sulla base di condizioni in essere e non di possibilità ipotetiche di pericolo.

Qui vogliamo attirare l’attenzione su alcuni elementi che si stanno manifestando nel campo dell’esercizio degli equilibri dei poteri. L’ennesimo ricorso al meccanismo dei DPCM, una fonte legislativa secondaria, senza che evidentemente ci sia alcuna necessità di urgenza immediata, visto che si tratta di provvedimenti che ci mettono del tempo ad essere partoriti, pone non pochi problemi. Soprattutto ora che finalmente si è realizzato che è una procedura che va parlamentarizzata. Qui chi ha un minimo di competenze giuridiche sa (e l’ha ricordato il sen. Quagliariello nel dibattito di lunedì pomeriggio) che la nostra costituzione prevede come strumento per gli interventi d’urgenza il decreto legge: un atto del Consiglio dei ministri che entra immediatamente in vigore, ma che deve essere sottoposto al vaglio del parlamento che entro 60 giorni lo trasforma in legge, magari modificandolo, o lo fa decadere.

E’ evidente che questa è la via con cui si tutela tanto la capacità di intervento rapido del governo, quanto quella dell’organo della rappresentanza popolare, il parlamento, di esercitare una collaborazione dialettica col governo. Perché non la si segue? La spiegazione è semplice. Il decreto legge è un atto del Consiglio dei Ministri nel suo complesso e sappiamo bene quanto l’attuale esecutivo fatichi a decidere consensualmente fra tutti i suoi membri su qualsiasi testo (tanto che ormai le approvazioni “salvo intese” sono divenute quasi una barzelletta). Poi il testo deve passare dal Quirinale per un esame e si sa che la “politica” pensa di poterci infilare qualsiasi trovata, salvo poi venire bacchettata dal Colle (vedi i decreti Salvini, per dire). Infine il passaggio in parlamento non è formale: se ne discute nelle Commissioni di competenza, poi in Aula, e qui la dialettica politica e il concorso, collaborativo o ostruzionistico, dell’opposizione può dispiegarsi.

Sono tutte cose che di questi tempi non piacciono al governo. Il DCPM è molto più semplice: fa tutto il premier coi suoi collaboratori, non si deve passare per il Quirinale e se si va in Parlamento (ma non è obbligatorio) ci se la cava con una comunicazione e un voto, roba a dir tanto di una giornata. Se poi si può contare, come negli ultimi casi, su una blindatura che deriva dal fatto che per varie ragioni il governo non può essere fatto cadere e sostituito e neppure si può andare ad elezioni anticipate, tutto diventa semplice. Però significa affidare al premier un potere molto ampio e di fatto poco controllato. E pensare che nel caso concreto non si tratta neppure di un premier che possa contare su una qualche forma, anche relativa, di validazione elettorale sulla sua persona.

Stiamo dunque andando verso un ulteriore rafforzamento del potere del premier, e solo di conseguenza del governo, con marginalizzazione del ruolo delle Camere rappresentative. La cosa non suscita particolare scandalo solo perché le Camere sono riuscite a finire delegittimate agli occhi della pubblica opinione, la quale però non si accorge delle conseguenze che questo può avere.

Tuttavia questo non significa ancora, almeno nell’emergenza della pandemia, che il premier e il suo governo possano fare a meno di legittimarsi in qualche modo con un passaggio attraverso la rappresentanza. Solo che oggi questo si realizza nel confronto/scontro con i “governatori” delle regioni. Questi sono senza dubbio legittimati dall’elezione diretta, ma rappresentano dei poteri di natura “para-federale” che si sono attribuiti per prassi e che non sono codificati in costituzione (salvo in maniera molto relativa per le regioni a statuto speciale). Eppure lunedì pomeriggio il premier Conte ha solennemente riconosciuto che i suoi futuri DPCM verranno firmati “tenendo conto” di quanto suggerisce la conferenza stato-regioni. In pratica questa istituzione, che è nata come un mero organo strumentale di raccordo, sta divenendo la “terza Camera” (e forse la più importante). Aggiungiamoci che di nuovo è una sede in cui i governatori agiscono come soggetti singoli, perché non risulta che i Consigli regionali, cioè gli organi normali della rappresentanza a quel livello, abbiano un qualche ruolo di rilievo (non sappiamo neppure se vengano sentiti).

Come si vede da questo pur rapido excursus, stiamo andando verso un sistema di “decisionismo” che neppure il tanto vituperato Craxi sarebbe riuscito ad immaginare ai suoi tempi. E’ un mutamento che, come ha rilevato nel dibattito di lunedì il sen. Zanda, dovrebbe essere oggetto di attenta valutazione. Aggiungiamoci ancora che questo costringe il Presidente della Repubblica a tornare ad essere un attore politico direttamente attivo, come si è dovuto arrendere ad essere Mattarella, che su quel terreno non avrebbe voluto scendere. Non che sia una novità assoluta, perché praticamente tutti gli inquilini del Quirinale hanno esercitato presenze di rilievo (basta leggere l’ormai ricca memorialistica al riguardo), solo che adesso si esercita su un sistema fragile dal punto di vista degli equilibri politico-sociali, reso ancora più instabile dal confronto con una emergenza di portata storica come la grande pandemia con cui stiamo facendo i conti.