Un nuovo partito personale
La costituente convocata da Giuseppe Conte per validare la svolta da lui impressa al Movimento Cinque Stelle si è conclusa come c’era da aspettarsi: con la certificazione della nascita di un ulteriore partito di professionisti politici che fa perno attorno ad un leader che ne è signore e padrone. L’ironia stizzita di Grillo che ha stigmatizzato il passaggio come transito “da francescani a gesuiti” coglie nel segno: non quello della storia, perché tanto i francescani quanto i gesuiti sono formazioni ben diverse dagli stereotipi della vulgata corrente a cui fa riferimento il garante disarcionato, ma quello di una certa immagine populista delle due formazioni religiose.
Francescano M5S non lo è mai stato, se non per un po’ di scenografia di comodo. Se si deve prestar fede alla leggenda nera che vuole i gesuiti intriganti faccendieri che ispirano il potere e se lo accaparrano quale che sia, invece qualche similitudine con le strategie dell’ex avvocato del popolo si trova facilmente.
La prima cosa da notare è che, a rigore, la convention pentastellata romana non ha deciso niente: si tratta solo di indicazioni di “linee” e di “indirizzi” che poi vengono affidate al leader, tacitamente riconfermato, e al suo gruppo dirigente per vedere quando e come, per non dire se, metterle in atto. Scontato il ben servito a Grillo come garante, anche se si potrebbe osservare che questa decisione ha raccolto solo il 63% dei consensi, il che non è proprio una vittoria travolgente, specie in una votazione online. Altrettanto attesa la rimozione del vincolo dei due mandati, che adesso sembra diventino tre. Si parla di deroghe per le candidature a sindaco ed a presidente di regione, il che qualche domanda dovrebbe farla sorgere: non è che sia strumentale a candidare Fico alla regione Campania? Sarebbe un bel problemino per il PD…
Il tema centrale però, a nostro avviso, non è solo una organizzazione del movimento come partito della classe politica attualmente al potere attorno alla leadership di Conte, che non viene minimamente toccato (anzi tutta la coreografia dell’incontro è una liturgia attorno alla sua figura). Va bene il partito personale, perché ormai si usa così, anche se, per la verità, quelli che vanno meglio in questo momento, FdI, PD, e la stessa FI, tali non sono, perché certo hanno leader più o meno forti, ma hanno articolazioni e classi dirigenti composite. Tuttavia per sostenere questa personalizzazione ci si aspetterebbe un minimo di progetto politico.
Su questo terreno Conte ha mantenuto M5S fedele a quella confusa indeterminatezza che in una fase iniziale ne aveva promosso il successo. Certo non siamo più alla mitologia del siamo contro tutto e tutti, diversi da quelli che stanno nei palazzi, per la semplice ragione che, alla luce di come si sono comportati dal 2018 in poi, far credere che si viaggiasse ancora su quei sentieri era piuttosto arduo. Vista la situazione attuale che va verso un bipolarismo abbastanza radicalizzato, era gioco forza scegliere un campo. Lo si è però fatto con formule che vorrebbero mantenersi le mani libere. Citiamo frasi dal discorso finale di Conte. Dire “non ci appartiene la cultura della conservazione e non ci appartiene la cultura reazionaria” è abbastanza vago: tanto poi i due termini si possono applicare o disapplicare a piacimento a quel che circola nel mondo politico. Altrettanto ambiguo è proclamarsi “progressisti indipendenti”: significa solo ribadire che ci si vogliono mantenere le mani libere nelle alleanze, cosa che era scontata.
In definitiva, la più pregnante dichiarazione identitaria è nella frase: “radicali nei valori, pragmatici nelle soluzioni”. Tradotto in basic Italian significa: continueremo ad essere liberi di predicare bene e di razzolare come ci conviene, esattamente come abbiamo continuato a fare in queste ultime legislature.
Se vogliamo esaminare questa situazione, due sono le questioni che si pongono. La prima riguarda la politica politicante: i partiti che devono o vogliono puntare sull’allearsi con M5S devono essere pronti a pagare salato l’accordo. Lo si sta vedendo anche nelle ultime regionali, dove pur avendo dato i Cinque Stelle contributi insignificanti alla vittoria, hanno subito chiesto un assessorato. In più Conte pretenderà ancora di esercitare un controllo e ove possibile anche un veto sui componenti dell’alleanza, perché questo gli consente di sbandierare che il movimento è “radicale nei valori”. Riconoscergli questo ruolo di Sant’Uffizio del progressismo politico porrà non pochi problemi al PD e alle altre componenti del centrosinistra.
La seconda questione è se la scelta di fare di M5S un partito personale pagherà sul piano elettorale. Al momento i partiti che per le più varie ragioni sono schiacciati su questa fisionomia (vedi Renzi e Calenda) non vanno bene, neppure quando, come nel caso di M5S hanno alle spalle il residuo di passati successi (vedi Salvini). Conte può invertire questa tendenza continuando a puntare su un partito di agitazione mediatica senza avere l’esperienza e le doti del demagogo di spettacolo? Sarà tutto da vedere.
Al momento le elezioni politiche sono lontane e una caduta anticipata del governo Meloni non ci pare alle viste. In compenso l’anno prossimo ci saranno sei elezioni regionali e un buon numero di comunali importanti, cioè contesti in cui i partiti personali e di agitazione nazionale non funzionano bene. Andare poi alle elezioni nazionali dopo il consolidamento di un trend che presumibilmente terrà M5S in quei contesti a livelli piuttosto bassi non sarà una passeggiata.