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Un errore di comunicazione

Luca Tentoni - 02.05.2020
Errori di comunicazione

Il presidente del Consiglio Conte ha presentato in televisione i provvedimenti per la "fase due" dell'emergenza legata al Covid-19, ma ha commesso errori di comunicazione e qualche imprudenza sul piano politico. Sul merito, le scelte si possono discutere: secondo alcuni sono poco tempestive, secondo altri ci vorrebbe maggior prudenza; inoltre, non si comprende bene se siano un compromesso fra una decisione politica e le indicazioni degli esperti o frutto più della prima o più delle seconde; infine, non si capisce perché, pochi minuti dopo la conferenza stampa, un piccolo partito della maggioranza (Italia viva, che ha una forte vocazione all'opposizione pur restando al governo) abbia criticato aspramente - se non sconfessato - alcune decisioni inerenti alla "fase due" e che lo stesso Pd, una volta letta la nota della Cei, si sia affrettato a invitare il governo a correggere la rotta sulle celebrazioni religiose (i leader della maggioranza non erano al corrente delle misure adottate?). Conte è apparso involuto, incerto, quasi timoroso nel presentare una fase due che in realtà sembra più una versione 1.2. della precedente; così, la parte relativa alle maggiori aperture (quelle nel mondo produttivo) è finita annacquata nell'ambiguità delle visite ai "congiunti", nel pasticcio relativo alla Messa domenicale (ingenerato anche dopo la diffusione di un video tragicomico nel quale un sacerdote e un tutore dell'ordine discutono in Chiesa sulla liceità o meno di una celebrazione con una dozzina di astanti) e nella sottolineatura della distinzione fra ripresa degli allenamenti per gli sport individuali e proroga del blocco per quelli di squadra (cioè per la Serie A di calcio, mentre molti presidenti scalpitano per ricominciare la stagione, anche perché - diversamente - lo spettro del fallimento economico può incombere su più di un club). La stessa questione del prezzo politico delle mascherine (50 centesimi) ha fatto infuriare chi non riesce a venderle a quella cifra (perché magari le ha pagate di più al fornitore) e ha creato l'aspettativa nella popolazione che prestissimo ne avremo un quantitativo sufficiente per tutti a basso costo. In un colpo solo, insomma, Conte ha scontentato chi voleva un allentamento drastico del "confinamento" (promesso troppe volte: forse sarebbe stato bene aver più cautela nel far credere ad un ritorno più rapido alla normalità, dati i rischi), si è attirato l'ira dei vescovi e dei presidenti delle società di calcio, poi ha dato l'impressione di una qualche incertezza nel dire ciò che andava forse espresso chiaramente (cioè che, per conciliare salute e necessità produttive ed evitare una rapida ripresa del contagio, più di così era difficile non solo fare, ma anche promettere). I sondaggi gli danno ancora ragione, ma non si sa se i prossimi saranno altrettanto benevoli, perché la tregua politica è finita. Il governo non cade in questa fase solo perché non c'è un'alternativa pronta e perché è bene che Conte si assuma fino in fondo la responsabilità della gestione dell'emergenza sanitaria (poi si vedrà, quando sarà la crisi economica a passare in primo piano). Però c'è troppo nervosismo all'interno della maggioranza e anche nell'opposizione (dove Salvini perde consensi e non trova il bandolo della matassa, mentre la Meloni ha persino "catturato" un po' di grillini e non sbaglia un colpo; nel frattempo, Berlusconi ha ritrovato un ruolo, dopo la questione del Mes, che non aveva dai tempi del governo Letta). E anche se non è affatto vero che la Costituzione "è sospesa" (ci mancherebbe altro: non siamo in Ungheria) è però vero che l'insofferenza per una quarantena lunga e per una crisi che può colpire a morte alcuni settori produttivi c'è, e può minare, col tempo, l'ordine pubblico e la stabilità sociale. Se quanto pubblicato dall'Huffington Post martedì scorso (circa un documento del comitato tecnico-scientifico) risponde a verità, cioè che riaprendo tutto avremmo un nuovo picco già l'8 giugno, perché Conte non ha mostrato i dati dicendo - senza le solite circonlocuzioni che ama usare - che quanto si fa ha come unica alternativa altre decine di migliaia di morti? Non lo ha fatto per evitare di "épater le bourgeois"? In questo modo, però, dando l'impressione di non forzare, di non compromettere i toni felpati e rassicuranti fin qui adottati, ha forse commesso un errore mediatico che - alla lunga - potrebbe essergli fatale. Pochi mesi fa, è bene ricordarlo, il presidente del Consiglio non godeva dell'apprezzamento della maggioranza assoluta degli italiani: lui e il governo erano lontani dalla soglia del 50% (per non parlare dei partiti della coalizione, ancor oggi ben al di sotto di quella quota), poi la crisi e la necessità di trovare una figura tranquillizzante ma ferma hanno premiato Conte, il quale però oggi appare più conciliante che determinato. Come ci insegnano le meravigliose pagine del "Marziano a Roma" di Ennio Flaiano, le novità di successo vengono sempre a noia, prima o poi. Tuttavia, è bene non accelerare il naturale declino della novità e del consenso, così come è bene ricordarsi che uno statista è tale se sa rivolgersi alle persone prospettando anche "lacrime, sangue, fatica e sudore", se necessario (nella fase 1 Conte fece più o meno così e funzionò). Invece, incartarsi in una trattativa con la Cei, rimodulare il concetto di "congiunti" per evitare sollevazioni popolari e toccare il totem degli italiani (il calcio), senza contare il rinvio dell'apertura dei barbieri e dei parrucchieri (che fa tornare le nostre chiome agli anni Settanta, quando eravamo un po' tutti "capelloni") è un piccolo pasticcio che si sarebbe potuto evitare rinviando l'intervento televisivo di un paio di giorni e sistemando alcune questioni spinose irrisolte. Per quanto riguarda l'economia e i settori produttivi, era invece inevitabile scontentare più di qualcuno: l'allentamento non è stato marginale, ma chi voleva il "liberi tutti" per timore di chiudere non ha certo gradito. Del resto, l'aspetto sanitario e quello economico di questa crisi non sono in contrasto fra loro, ma si devono fare delle scelte: se si privilegia il secondo si fa come Boris Johnson (il quale, però, ha poi sperimentato gli effetti del suo approccio alla questione), mentre se si attende il "contagio zero" per riaprire, il tessuto produttivo muore. Il giusto contemperamento delle due esigenze è possibile, ma è difficile sia da predisporre, sia da attuare, sia - purtroppo - da spiegare. Fin qui, il governo ha cercato di gestire l’emergenza come ha potuto: non ci sono prove che, con protagonisti diversi, le cose sarebbero andate meglio; le pressioni per riaprire ad ogni costo – soprattutto da parte delle associazioni di categoria – sono state molto forti e hanno trovato sponde anche nella stampa e in alcuni opinion leader. Inoltre, va ricordato che in guerra vale la regola che “giusto o sbagliato, è il mio Paese”. Quindi, la nostra non è una critica all’intero operato di Conte, ma a un suo recente errore, che può danneggiare non solo il suo futuro politico o quello dell’esecutivo ma – cosa più importante – quello del Paese. Ecco perché il "marziano di Palazzo Chigi" è oggi un po' più solo e forse un po' meno amato (in primo luogo dai suoi alleati). Gli occorre un colpo d'ala come nell'estate scorsa, quando da "terzo azionista" fra Di Maio e Salvini si trovò improvvisamente a rivestire un ruolo politico, dopo un anno di limbo, attaccando il leader leghista e favorendo la nascita di un nuovo governo. Altrimenti - soprattutto se le cose andassero male - i primi a dirgli "ancora sei qui?" sarebbero proprio i partiti che oggi lo sostengono.