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11 dicembre 2024
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Un decennio di mobilità elettorale

Luca Tentoni - 21.12.2019
L'apocalisse della democrazia italiana

Alla fine di un decennio che sul piano elettorale ha visto spostamenti di voti frequenti e numerosi (con la nascita e l'ottimo risultato del M5s alle politiche del 2013, l'affermazione del Pd alle europee 2014, la vittoria del M5s alle politiche del 2018, il primo posto della Lega alle europee del 2019) e il susseguirsi di leadership prima vincenti, poi improvvisamente declinanti, possiamo provare a fare il punto sulla volatilità potenziale delle scelte di voto degli italiani. C'è un ottimo libro del Mulino, a cura di Hans Schadee, Paolo Segatti, Cristiano Vezzoni ("L'apocalisse della democrazia italiana - Alle origini di due terremoti elettorali", pp. 176, 2019) che spiega come "la motivazione decisiva della scelta di tantissimi di cambiare voto sia da ricercare nella caduta verticale di reputazione dell’intero ceto politico tradizionale; una crisi di autorità, serpeggiante da ben prima della Grande Recessione e alimentata dalla diffusa convinzione che entrambi i partiti-cardine del sistema politico della Seconda Repubblica fossero incapaci di attrezzare il paese alle sfide epocali da fronteggiare". Nel volume si passano in rassegna i temi che possono aver influenzato, con la loro maggiore o minore salienza, le scelte di voto: ci sono molte sorprese, che il lettore scoprirà. Ma torniamo a noi, al filo logico di questo decennio. Il "raccolto" del disincanto e della sfiducia nei partiti dominanti della Seconda Repubblica (Pd e Pdl) si è riversato nei granai di "formazioni come il M5s e la nuova Lega di Salvini che hanno permesso a questi risentimenti di esprimersi sul piano elettorale". In particolare, i Cinquestelle hanno svolto in questo decennio un ruolo fondamentale, permettendo agli elettori delusi di uscire dai poli senza andare necessariamente (se non in piccola parte) verso l'astensione. Il sistema, sull'asse sinistra-destra, è rimasto bloccato, anche se non blindato come fino al 2008: i passaggi di voto fra centrosinistra e centrodestra, nel 2013 e in seguito, sono stati minimi. Il M5S, invece, ha permesso ad ex elettori di sinistra e di destra di trovare un luogo terzo dove rifugiarsi, distante e non collocabile sul "continuum" tradizionale: l'indeterminatezza della politica pentastellata su alcuni temi ha permesso la convivenza di più anime nello stesso contenitore politico. Quella osmosi fra ex Unione ed ex Cdl che si era dimostrata impossibile si è realizzata nella prima metà del decennio grazie al M5s ma anche a Scelta civica: il partito di Monti ha catturato voti da entrambi i poli, per poi riversarli quasi tutti sul Pd del 2014, quello che (perdendo meno verso l'astensione, rispetto agli altri partiti, e "annettendo" l'elettorato montiano) vinse le europee. Una volta svuotata la gran parte del bacino di consenso di Pd e Pdl (dal 70,5% circa del 2008 al 31,5% di Pd-FI nel 2019) tutto è diventato possibile. Così, i voti di destra finiti nel M5s tornano ora nell'alveo originario (ma a Salvini e Meloni, non a Berlusconi) in una nuova Cdl a trazione sovranista che ha le percentuali di consenso del periodo 2001-2009, mentre il panorama è caratterizzato da una fortissima volatilità. Abbiamo provato, con un metodo molto rozzo, basandoci sui voti validi minimi riportati da ciascun soggetto politico nel periodo 2013-2019, a stimare l'entità di tre blocchi di elettori, prima distinguendo i "fedeli" (all'astensione, al proprio partito) dagli "infedeli" (indecisi se votare e per chi) e poi delineando i campi: 1) astensionisti cronici (circa 11,6 milioni, il 25% circa degli aventi diritto); 2) elettorato di appartenenza (circa 17,5 milioni, il 37%) composto da chi vota sempre e per lo stesso partito; 3) "regno della fluidità" (circa 18 milioni, il 38%) fatto da chi non sa se votare e per chi votare. In altre parole, il 62% è fedele alla propria scelta (gruppi 1 e 2) ma è il 38% a decidere l'esito di tutte le partite, a fare la fortuna di leader e soggetti politici; escludendo gli astenuti "cronici", abbiamo un 49,5% di elettorato "fedele" e un 50,5% propenso alla mobilità ma anche alla smobilitazione (cioè al non voto, in certi casi, a seconda dell'importanza della consultazione e alla salienza dei temi). Nei fatti, quel 50,5% non si traduce in una volatilità dello stesso peso numerico, perché alcuni possono temporaneamente confermare il voto al partito precedente (o il non voto) per poi, tuttavia, cambiare la volta successiva. C'è una disponibilità, quindi una domanda potenziale che è soddisfatta spesso da un'offerta politica e mediatica cangiante e capace di sfruttare i temi e il "sentimento" corrente per costruire fortune elettorali che nella Prima Repubblica erano impensabili e nella Seconda - fino al 2008 - erano appena immaginabili (al massimo, restavano pie speranze). Gli anni Dieci che si chiudono hanno visto molti leader sulla scena: Berlusconi, poi Monti, Grillo, Renzi, Di Maio, Salvini, Meloni (più Conte, che non ha un seguito elettorale tangibile, ma ha avuto una stagione di buon gradimento popolare ed è ancora al primo posto fra le personalità - Capo dello Stato escluso, s'intende - davanti ai capi di Lega e Fdi). È verosimile che questa frenetica girandola non si fermi negli anni Venti. Ad oggi, dunque, gli italiani sanno dire ancora solo ciò che non sono, ciò che non vogliono, parafrasando Montale. Perciò cambiano, vagando alla ricerca di approdi nuovi, in attesa di quello definitivo che forse non esiste (o almeno non si vede).