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Ultimi fuochi sul referendum

Paolo Pombeni - 16.09.2020
Conte e Zingaretti

La questione referendaria continua a premere sul futuro del governo. Quella che sembrava una passeggiata verso una plebiscitaria vittoria del sì, si sta rivelando un sentiero tortuoso che non si sa dove sfocerà, perché il no è in rimonta costante. Decisivo sarà probabilmente, oltre al numero di elettori che si recheranno ai seggi, l’orientamento degli indecisi, che non sono pochi. In effetti anche per noi è difficile scegliere fra la padella e la brace: la padella del sì che emana il profumo poco gradevole dell’olio bruciato del populismo grillino (che non demorde: vedi l’annuncio di passare come punto successivo al taglio dello stipendio dei parlamentari); la brace del no, piena del fumo confuso di un conservatorismo che si veste ogni volta da difensore della Costituzione (che è già cambiata rispetto a quel che sostengono loro).

Sembrava che il PD si fosse finalmente deciso a prendere l’iniziativa necessaria a motivare un sì da riformisti e non da populisti, varando un progetto di riforma costituzionale articolato. Purtroppo, almeno fino al momento in cui scriviamo, disponiamo solo di un comunicato stampa che riassume il lavoro dei tre personaggi (autorevoli) che hanno predisposto la bozza: i parlamentari Ceccanti e Parrini nonché l’ex presidente Violante. Ma un comunicato stampa è poco per giudicare una riforma che tocca punti delicati, dove ovviamente il diavolo può nascondersi in molti dettagli. Comunque proviamo a ragionarci.

Evidentemente gli estensori si sono mossi puntando ad un realismo politico che alla fine li ha imprigionati: poiché si sa che la disponibilità parlamentare ad affrontare questi temi è per il momento pressoché nulla, meglio non toccare troppi nervi sensibili. Così ci si è spinti più avanti nel ridisegnare la posizione del governo e del premier, e si è rimasti piuttosto indietro sulla questione della seconda Camera.

Sul primo ambito si prevede di affidare il potere di fiducia e sfiducia al governo ad una assemblea che unisca insieme Camera e Senato (si torna ad una proposta che fu già avanzata durante la Costituente), per evitare possibili giochetti su maggioranze differenti magari per pochi voti nelle due Camere. Rimane ovviamente il tema di come si farà se anziché a seguito di un formale voto di sfiducia, il premier si dimettesse di sua iniziativa perché sconfitto su una sua proposta qualificante in una Camera e non chiedesse di formalizzare la verifica (è già accaduto più volte). Su questo bisognerà vedere se il testo proposto dal PD prevede qualcosa o se in quel caso si lascia tutto com’è ora nelle mani del Quirinale con il rito delle consultazioni e dell’incarico.

Più tranquilla l’attribuzione al premier del potere di nomina e anche di licenziamento dei singoli ministri: si semplificherebbero alcune questioni (per esempio nel caso di rimpasto), ma si caricherebbe il premier di un ruolo preminente di guida e di responsabile di tutte le scelte dell’esecutivo. Oggi la questione è più ambigua, maggiore lo spazio per i partiti che hanno al governo proprie “delegazioni”, e di tutto questo si è approfittato (Conte docet).

Come dicevamo, il vero nodo è la seconda Camera. Qui la proposta tratta la questiona per così dire da un punto di vista laterale, cioè presumendo che il problema sia il fatto che Camera e Senato hanno identici compiti che duplicano inutilmente i procedimenti (sarebbe questo il cosiddetto bicameralismo paritario). Per questo si immaginano differenziazioni nelle attribuzioni (non sappiamo come, non avendo visto il testo). In realtà il vero problema è nel fatto di avere due Camere i cui membri vengono “estratti” dalla società con le stesse modalità, anziché essere, come dovrebbe essere nella tradizione del costituzionalismo occidentale, rappresentazione di due diverse filiere e sensibilità.

Su questo non si innova nulla, perché, almeno a stare al comunicato, il Senato continuerà ad esser formato da 200 membri eletti direttamente dal suffragio (pensiamo così come avviene oggi). Ad essi semplicemente si aggiungeranno 19 membri eletti dai consigli regionali e 2 dai consigli delle province autonome (che a questo punto chiederanno, come i sudtirolesi fanno da tempo, di essere semplicemente trasformate in regioni). E’ certo una novità che può avere qualche peso se i consigli regionali mandassero in Senato personaggi di notevole spessore, ma non sappiamo quanto ci si possa contare.

Comunque sia di per sé la mossa del PD avrebbe il pregio di tentare almeno di far uscire la discussione sulle riforme da avviare dalle secche del populismo grillino che non vede oltre la storiella dei tagli agli stipendi dei parlamentari. Bisognerebbe però che la proposta venisse almeno ufficialmente presentata e depositata alle Camere. Certo aver atteso sino a quattro giorni dall’apertura delle urne referendarie non dimostra gran determinazione, così come si intuisce anche troppo bene che in sostanza la riforma punta semplicemente ad introdurre una forma di monocameralismo bastardo, perché si ritiene che questo sia il massimo che possa accettare una classe politica già terrorizzata dalla perdita di seggi disponibili e dagli ondeggiamenti della pubblica opinione.

Temiamo però che neppure per questo ci saranno disponibilità (esponenti M5S l’hanno già detto o fatto capire) vista la situazione generale e il PD non ha la forza per imporne almeno una seria presa in carico.