Tra color che son sospesi …
È tutta una politica sospesa quella italiana. Così sono i partiti: la Lega che aspetta di vedere come Salvini se la caverà col caso Diciotti e colle elezioni sarde; i Cinque Stelle che si leccano le ferite dopo lo smacco abruzzese e aspettano anch’essi le urne della Sardegna; il PD che non riesce ad uscire dalle schermaglie fra i candidati alla segreteria mentre Renzi torna a spargere veleni con la scusa di un libro. Poi ci si aggiungono le decisioni politiche che non si riescono a prendere: su tutte campeggiano la questione delle nuove autonomie regionali e quella sempiterna della TAV. Ci si aggiungano i pasticcetti delle nomine, da una posizione nel direttivo della Banca d’Italia a quelle al vertice dell’INPS.
La situazione in teoria dovrebbe implodere, ma in pratica questo non avviene, perché non c’è alternativa parlamentare disponibile per un governo diverso da quello in carica. È vero che qualcosina di nuovo sembrerebbe arrivare perché Zingaretti, candidato alla segreteria PD, ha detto per la prima volta che se il governo dovesse cadere non sarà un dramma andare ad elezioni anticipate. Probabilmente si pensa ormai che nello stallo attuale, per non dire nella palude attuale, non ci sia più da temere quel che potrebbe succedere nell’interregno fra lo scioglimento delle Camere e l’apertura delle urne (almeno tre mesi): peggio di così …
In realtà può andare anche peggio, ma si sta perdendo coscienza dei rischi per la difficile sostenibilità del presente. Per esempio, si sta sottovalutando il deterioramento della nostra collocazione in Europa. Giustamente Romano Prodi ha richiamato sul “Messaggero” di domenica scorsa il nuovo asse che si sta formando fra Francia, Germania e Spagna. Anche se Madrid può essere un partner problematico, visto che dovrà andare ad elezioni anticipate e che ha il coltello nel fianco della questione catalana, non è detto che esca di scena: in politica estera la continuità è una costante, almeno fintanto che le classi dirigenti non finiscono nelle mani di personaggi improvvisati.
L’Italia non è messa bene e non se ne rende conto solo chi segue le banalità di spin doctor poco avvertiti come fa il presidente Conte quando si avventura a dire al parlamento europeo che il suo governo è fiero delle opposizioni che trova perché vengono da lobby contrarie al “cambiamento”. Puntare su un esito delle prossime elezioni europee che si prevede toglieranno all’alleanza storica fra PPE e PSE il controllo del parlamento di Bruxelles-Strasburgo significa non avere presente un dato banale: attualmente il governo della UE è saldamente in mano al Consiglio che è formato dai capi dei vari stati membri e il parlamento non è che abbia un grande potere. Se nella prossima legislatura poi il parlamento sarà quantomeno indebolito dalla mancanza di una maggioranza che in qualche misura lo guida e dalla presenza aggressiva dei partiti sovranisti, ciò vorrà dire semplicemente che il potere decisionale sarà ancor più nelle mani del Consiglio, cioè della assemblea dei capi di stato.
In quel consesso l’Italia è a dir poco debole e guardata con sospetto come possibile portatrice dell’infezione di una economica in forti difficoltà. Del resto basterà ricordare come sino ad oggi il Consiglio non ci abbia mai aiutato in questioni spinose come quella del governo delle migrazioni.
Ora in previsione di questo scenario, non esattamente tranquillizzante per un paese che l’anno prossimo dovrà affrontare scadenze di bilancio assai impegnative, delle classi dirigenti consapevoli di quel che le aspetta dovrebbero puntare con decisione a due obiettivi. Il primo è ripristinare la propria capacità di governo mettendo fine ai giochetti ideologici il cui contenuto risibile diventa sempre più evidente. Non si gestisce un paese discettando su improbabili tabelle di conti sui costi/benefici delle grandi opere, fra il resto già varate, non riuscendo a dare un quadro razionale allo sviluppo di un sistema di decentramento di poteri senza mettere alle corde sia quelli che lo interpretano come una occasione per tenersi i loro tesori sia quelli che strepitano sul tema della secessione dei ricchi. Abbiamo citato due grandi questioni, ma il discorso si può allargare perché è tutto un confrontarsi di pre-giudizi ideologici, dai provvedimenti in materia di legittima difesa a quelli sulla promozione di nuove forme di welfare.
Il secondo tema che va assolutamente affrontato è la necessità di superare l’eterna drammatizzazione della sfida fra angeli e demoni. Un sistema democratico funziona se il complesso delle forze politiche riesce a confrontarsi e anche in alcuni casi a fare blocco al di là delle divisioni di parte. Senza un clima del genere ci si indebolisce sul piano internazionale e, se si è già deboli di proprio, come è il caso del nostro paese, la cosa diventa disastrosa.
Tutti sappiamo che appelli alla virtù, come sostanzialmente sono le notazioni che abbiamo appena fatto, di rado in politica trovano accoglienza tra i partiti che competono fra loro, legati come inevitabilmente sono al loro personale politico che fa fatica a uscire dalle logiche di contrapposizione. Sarebbe però possibile e significativo che trovassero accoglienza almeno in quote crescenti di formatori della pubblica opinione, che dovrebbero esercitarsi a condizionare i partiti in quelle direzioni anziché correre a schierarsi come improbabili aedi al fianco delle fazioni ansiose solo di menar le mani.
di Paolo Pombeni
di Francesco Provinciali *