Torna il sogno della bacchetta magica elettorale?

Si discute adesso dell’uscita dell’on. Dario Franceschini che ritorna sul tema, non sappiamo se sempre verde o secco, ma immarcescibile, di una nuova legge elettorale come chiave per quella riforma del sistema politico italiano che non si è riusciti ad avviare.
Per la verità non è che non se ne sia mai discusso. Se si vuol risalire molto indietro si può ricordare il tentativo di introdurre nel 1953 una legge elettorale proporzionale con premio di maggioranza per la coalizione vincitrice. Presidente del Consiglio era Alcide De Gasperi, la riforma divenne legge dopo battaglie parlamentari furibonde, era valida per le elezioni di quell’anno, ma non poté avere effetto perché prevedeva che la coalizione vincitrice per aggiudicarsi il premio dovesse raccogliere il 50%+1 dei suffragi e nelle urne l’obiettivo fu mancato per piccolo numero di voti (la coalizione di centro guidata dalla DC si fermò al 49,8%). In quell’occasione la riforma fu denominata “legge truffa” per la banale constatazione che solo la coalizione di centro poteva in realtà raccogliere eventualmente il quorum necessario, mentre non era possibile una coalizione alternativa in grado di competere perché le opposizioni erano divise fra partiti di destra e partiti di sinistra chiaramente non coalizzabili fra loro.
Quella legge fu cancellata subito dopo e per lungo tempo di vere riforme elettorali non si parlò più, salvo in alcune discussioni accademiche. Il tema tornò ad essere dibattuto negli anni Ottanta, quando, dopo l’assassino di Moro e il fallimento della solidarietà nazionale, il ruolo di perno attribuito alla DC venne messo in discussione e si prospettò la necessità di avere sistemi elettorali che mettessero nelle mani degli elettori la spinta a fare quelle coalizioni di governo che i partiti della prima repubblica in crisi non riuscivano a costruire da soli. Era il mito del “cittadino come arbitro” secondo una prospettiva proposta da Roberto Ruffilli, professore di storia, ma allora senatore della DC, membro della Commissione Bozzi per le riforme istituzionali, poi vigliaccamente e barbaramente ucciso da una frazione delle BR.
Non è qui il caso di fare la storia del susseguirsi delle riforme elettorali, contrassegnate da nomignoli latineggianti per inventiva del politologo Giovanni Sartori (Mattarellum, Porcellum, Rosatellum). Più o meno tutte, in modo più soft la prima, in modo più deciso le ultime, hanno puntato a due obiettivi. Il primo la promozione di un saldo bipartitismo sul modello anglosassone di allora è subito fallito. La sua variante di costruire un bipolarismo di coalizioni pluripartitiche, ma solide, capaci di ridurre il numero dei partiti in campo non ha avuto una gran sorte.
Il secondo obiettivo, che era quello di produrre direttamente dalle urne la scelta del governo, è funzionato in maniera zoppicante. La presenza nel centrodestra dal 1994 in avanti di un leader capace di aggregare una coalizione attorno a sé e al partito di cui era inventore e padrone ha avuto successo per oltre vent’anni, ma più per la capacità, comunque la si voglia giudicare, di Silvio Berlusconi che per merito delle leggi elettorali. Le opposizioni di centrosinistra sono riuscite solo parzialmente a copiare il modello del leader trascinatore (lo è stato in due brevi occasioni Prodi, ma le sue coalizioni gli si sono sfasciate sotto i piedi), perché poi le leadership sono state deboli e passeggere.
Ora, per farla breve, l’on. Franceschini, di fronte al successo di una coalizione di destra-centro che non solo sta tenendo nonostante tensioni interne non piccole, ma che è riuscita ad esprimere una leader inaspettata, Giorgia Meloni, che fino ad oggi si è più che consolidata, propone in sostanza un ritorno alla prima repubblica. Si lascino perdere i marchingegni che illudono di dare agli elettori il potere di determinare chi sarà il premier obbligandolo a costruirsi a priori una coalizione e si torni allo schema della prima repubblica: i partiti, in un sistema tendenzialmente con prevalenza del proporzionale, competono senza dover formare prima delle urne delle coalizioni posticce e poi in parlamento si faranno le coalizioni e i governi connessi.
Naturalmente la faccenda non è presentata in questi termini brutali, perché il politicamente corretto imposto dai media non lo consente, e dunque si arzigogola, si fanno dei funambolismi e quant’altro, ma la sostanza è più o meno quella che abbiamo cercato di spiegare.
Il nodo è che sarebbe tempo che i politici si rendessero conto che non si vince con manipolazioni dei meccanismi elettorali, con gli escamotage di quello che alcuni chiamano “ingegneria costituzionale”. Si vince intuendo i cambiamenti dei sentimenti dell’opinione pubblica, essendo capaci di venire incontro alle aspettative di fronte alle difficoltà del vivere comune, costruendo percorsi per selezionare classi politiche credibili per capacità e senso del dovere.
Ovvio che tutto questo può essere giocato anche in un’ottica demagogica, facendo credere che queste caratteristiche ci siano, mentre sono esercizi di illusionismo, ma le domande a cui si risponde rimangono quelle e chi vuole svelare “il trucco e l’inganno” dei demagoghi non può farlo che mostrando la propria capacità di essere fatto di un’altra pasta. Gli illusionismi, se sono solo giochi di specchi, hanno vita breve e comunque la gente prima o poi apre gli occhi: la storia della politica è lì a dimostrarlo, solo che ci si renda conto che non è questione di tempi fulminei e nemmeno rapidi.
La classe politica se vuole competere davvero in modo costruttivo deve capire questa ragione, lasciando perdere il sogno proibito che sia possibile vincere organizzando a priori la partita elettorale con regole a favore di questo o di quello. Prima si cerchi di trovare la strada giusta e la forza collettiva per percorrerla, poi si discuterà di come renderla più facile da percorrere.
di Paolo Pombeni