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Scossoni politici

Paolo Pombeni - 21.11.2018
Caserta blindata

Non è il caso di derubricare a folklore propagandistico lo scontro sui termovalorizzatori fra Salvini e Di Maio. La faccenda è più seria di quel che potrebbe apparire a stare alla banale sostanza della cosa, perché davvero di contenuto immediato ce n’è pochino. La pretesa di Di Maio di risolvere il problema dei rifiuti in Campania (e altrove) con la storiella della raccolta differenziata e dell’economia circolare non può che suscitare ilarità in chi ha visto in TV i cumuli di rifiuti di cui sono piene le strade di varie contrade in quella regione (e, se per questo, anche di Roma). Non si vede davvero per quale miracolo l’inciviltà di chi lascia ogni tipo di immondizia per strada dovrebbe sparire in un attimo e come si possa attivare rapidamente una “circolarità” il cui contenuto è al momento solo una sfilza di belle parole.

D’altra parte però anche la proposta di Salvini di dare l’avvio alla costruzione di termovalorizzatori è sensata, ma non tale da risolvere nell’immediato una emergenza, perché si tratta di impianti che comunque richiedono tempo per essere costruiti ed entrare in funzione. Dunque c’è da chiedersi perché abbia aperto uno scontro che al momento è puramente ideologico.

È qui che va esercitata un po’ di analisi, perché il leader della Lega tutto è meno che uno sprovveduto. Tanto Salvini quanto Di Maio hanno obiettivi politici ben più immediati che un braccio di ferro sulla gestione dell’emergenza rifiuti.

Il primo ha ormai chiaro il problema di accreditarsi sempre di più come il leader politico capace di realismo e di sostanziale buon senso. Per farlo deve mettere almeno parzialmente in ombra le sue sparate sull’emergenza immigrazione e sulla flat tax, nonché posizionarsi per quando arriverà l’onda d’urto delle reazioni della UE all’avventuroso bilancio italiano. Salvini ha capito che una buona parte dell’opinione pubblica e anche le classi dirigenti cercano un garante contro l’avventurismo e la debolezza di questa fase politica così come gli è chiaro che nell’attuale contingenza per quel ruolo non ha rivali. Si facesse anche saltare l’attuale governo, non è ad una improbabile coalizione fra PD e M5S che ci si potrebbe affidare per essere garantiti sul fronte di una politica più realistica.

Di Maio ha il problema speculare: come politico coi piedi per terra non può presentarsi, sia per limiti personali, sia per la concorrenza di Di Battista e di altri movimentisti presenti nelle sue schiere. Deve per forza di cose ricompattare i suoi con qualche almeno apparente vittoria, dopo che i risultati sbandierati non hanno per nulla galvanizzato le sue truppe: certo non il taglio dei vitalizi ai parlamentari e delle pensioni d’oro (roba ancora in itinere che non si sa come andrà a finire), men che meno il reddito di cittadinanza avvolto nella nebbia più densa.

Non gli resta dunque che arroccarsi sulla linea dell’interpretazione ridicola del “contratto”, cosa che gli consente di vincere facile su qualche punto, perché Salvini al momento non ha convenienza a far saltare il banco, ma che sarà aggirata senza sforzo al momento opportuno. La Lega infatti non solo ha il vento dei sondaggi in poppa, ma ha soprattutto una alternativa potendo tornare ad una alleanza di centrodestra che sarebbe comunque sotto la sua regia, mentre Di Maio può solo tornare, azzoppato (anche sul piano personale), ad una opposizione che va già perdendo di mordente.

L’incognita di quel che succederà col formalizzarsi del braccio di ferro con la UE pesa eccome su questa fase politica. Anche in questa prospettiva a Salvini conviene presentarsi come uno che alla fine sa scendere sul terreno concreto, mentre Di Maio cerca di accreditarsi come un interlocutore con Bruxelles, ma non ha frecce al suo arco: il presidente Conte viene da lui spinto a cercarsi uno spazietto sulla scena, ma non ci riesce; il ministro Savona, che capisce i termini della questione, non sembra disposto a perdere la faccia sostenendo politiche che si scontrano con un contesto economico internazionale decisamente ostile.

Non è un governo ben messo quello che dovrà sostenere l’urto con il combinarsi dell’ostilità dei paesi UE verso la politica economica italiana e della presa di distanza dei mercati dal finanziamento del nostro debito pubblico (questo è lo “spread”). Il ministro Tria appare sempre più come un prigioniero politico dell’esecutivo costretto a difendere una manovra che deve ammettere essere a rischio, tanto che deve affannarsi a proclamare che sarà fatta con “clausole di salvaguardia” contro il suo più che possibile fallimento. È una dichiarazione che ovviamente non rassicura gli interlocutori europei e che per converso preoccupa moltissimo il mondo economico italiano.

Il presidente del consiglio non ha statura internazionale, tanto che Juncker può permettersi di tenerlo in sala d’aspetto a suo piacimento. Molti ministri sono palesemente considerati come inadeguati: si tratta soprattutto di Cinque Stelle, ma sono inclusi anche ministri espressi dalla Lega. I giudizi che corrono ormai non solo nelle sedi riservate, ma neppure più di tanto fra le righe anche in sedi para-pubbliche sono impietosi (e in più di un caso sono espressi con il condimento di un “Salvini pensaci tu”).

Certo è difficile immaginare una crisi di governo con la sessione di bilancio alle porte, ma dopo tutto diventa possibile.