Ultimo Aggiornamento:
24 aprile 2024
Iscriviti al nostro Feed RSS

Rem tene, tablets sequentur

Elisa Lucchesi * - 09.12.2014
LIM alla scuola primaria

La tecnologia digitale sta ormai penetrando in modo capillare all'interno delle aule scolastiche italiane.

All'epifania della strumentazione nova non pare tuttavia affiancarsi  - nel qui e ora - una ponderata e quanto mai urgente riflessione sulle trasformazioni metodologiche connesse all'uso del digitale né, d’altro canto, una efficace formazione del personale docente in merito alle inedite prospettive didattiche offerte da tablets e LIM.

Ne consegue una situazione di confusione generalizzata all’interno del corpo docente, di cui ancora una volta gli studenti subiscono le conseguenze più gravi.

 

Guerre (metodologiche) tra poveri

 

La scuola italiana ha da sempre i suoi simboli: la cattedra, la lavagna di ardesia, i banchi di fornica, la cimosa, il registro cartaceo con le pittoresche note disciplinari.

Oggi questi oggetti appaiono non solo obsoleti, ma si fanno emblema, nell’opinione pubblica, di una scuola non più al passo coi tempi, di un ancien régime didattico che può - anzi deve - essere smantellato in nome della neonata furia rivoluzionaria 2.0.

Le vecchie icone non sono solo destinate a scomparire (alcune di fatto, come il registro cartaceo, non esistono già più), ma addirittura risultano votate, in nome delle magnifiche sorti e progressive, a una draconiana damnatio memoriae.

 

Ma davvero nel digitale è racchiusa la formula che mondi possa aprir-ci, utile a regalare una scuola nuova all'Italia, e dunque un futuro migliore alle sue giovani, inquiete generazioni?

 

No, a mio parere. Almeno allo stato attuale dei fatti.

 

Il corpo docente, nave sanza nocchiero in gran tempesta, si trova a fare i conti con le macerie di un modello scolastico che rapidamente declina. Abbandonato a se stesso, privo di indicazioni chiare in merito al radicale cambiamento imposto -  si trova costretto a un faticoso adattamento che spesso percepisce come inutile, mentre un’innovazione dai contorni incerti incalza minacciosa.

Costretto a procedere a tentativi, anzi a tentoni, l'insegnante tradizionale è sfiduciato e finisce per arroccarsi nelle ultime intramontabili certezze: la matita rossoblu e il suono della campanella; la spiegazione frontale e le verifiche orali.

 

Spesso l'innovazione - intesa nei termini di reale sperimentazione dei contenuti nelle forme inedite offerte dalle nuove tecnologie  - è affidata a tentativi pionieristici di singoli insegnanti.

Questi muovono a fatica i loro passi, nell’imbarazzante silenzio delle istituzioni, e non di rado sono vittime del mobbing di colleghi imbalsamati (mi perdonino Federico Ruysch e le sue mummie) che, continuando a trincerarsi dietro il sempreverde vessillo del programma da portare a termine, liquidano senza troppi complimenti i tentativi progettuali in termini di banali  ‘perdite di tempo’.

 

Così oggi, nelle cosiddette classi 2.0, giovani nativi digitali - avvezzi all’uso delle nuove tecnologie, ma non per questo educati ad un uso intelligente delle stesse - si trovano a maneggiare costosi tablets offerti dal Ministero. E fa tenerezza la loro condizione purgatoriale di anime discenti, contese alla stregua di quella di Bonconte di Montefeltro tra docenti che acclamano la palingenesi digitale e altri che ne paventano l’arrivo alla stregua dell’Apocalisse.

Davvero tutto un programma, viene da dire.

 

Un po’ di chiarezza

 

La rivoluzione digitale  - intesa in termini di metodologie sperimentali - proviene senza dubbio dal basso.

Essa rischia tuttavia di sfarinare sull’impiantito come tarma di montaliana memoria, laddove - dall’alto - non si arrivi alla presa di coscienza che accanto all’auspicabile adozione degli strumenti nuovi deve essere ben salda la novità del concetto, la res appunto, che attraverso questi ultimi si intende proporre.

Una mera (e costosa) sostituzione degli oggetti che da sempre rappresentano la scuola nella coscienza collettiva italiana appare inutile - se non dannosa - qualora ad essa non si affianchi un attento ripensamento dei contenuti e delle stesse metodologie.

Imporre ai docenti un utilizzo massiccio del digitale senza riflettere su come tali strumentazioni cambino tempi e modi  dello stare in classe e soprattutto senza una ponderata valutazione di modelli didattici alternativi significa agire con violenza sulle crepe di un edificio fatiscente, senza meditare sulla solidità delle stesse fondamenta.

Simili operazioni rischiano di configurarsi come mere ristrutturazioni di facciata: prive di reali benefici, possono per di più di minare un sistema che, pur obsoleto, finora ha retto in un suo precario equilibrio.

Pare dunque quanto mai opportuno aprire tavoli di discussione in cui docenti ed esperti di settore si confrontino. In modo particolare, sembra necessario interrogarsi su come la tradizionale programmazione - connotata nelle aule reali da un ritmo lento e lineare - possa armonizzarsi in quelle digitali con la rapidità e la frammentarietà delle forme di apprendimento insite nella fruizione dei new media.

In questo, a mio parere, si gioca la stessa sopravvivenza dell’istituzione scuola in un futuro ormai a portata di click.

 

 

 

 

* Dottore di ricerca in Linguistica Storica.

Insegnante.