Polpette di pesce avvelenate: nuove tensioni a Hong Kong
A dispetto di un inverno più freddo e lungo del solito, il clima politica dell’ex colonia britannica negli ultimi mesi si è progressivamente surriscaldato, andando a toccare nuove bollenti vette lunedì 8 febbraio, quando, in concomitanza con le celebrazioni per il capodanno cinese, una violenta rivolta contro la polizia si è sollevata nel quartiere popolare di Mong Kok, nella penisola di Kowloon. All’origine delle rivolta, vi è stata la controversa decisione della polizia di sgomberare dal quartiere i numerosi venditori ambulanti di jiu daan (polpette di pesce) e altri cibi da strada che affollavano Mong Kok durante il capodanno. La decisione presa dalle forze dell’ordine si poneva in contrasto con il tradizionale periodo di amnistia concesso dalle istituzioni locali per l’igiene pubblica ai venditori ambulanti durante le festività. Una rapida mobilitazione attraverso i social media della galassia di movimenti studenteschi e giovanili che hanno animato la cosiddetta “Umbrella Revolution” che sconvolse Hong Kong a fine 2014 ha quindi portato una folla di giovani nel quartiere, pronti a protestare contro la polizia. La protesta tuttavia è rapidamente degenerata in una notte di guerriglia urbana, con lancio di mattoni verso gli agenti e l’incendio dei cassonetti della spazzatura, e si è conclusa in tarda nottata con un bilancio di cinquanta feriti e cento arresti. Sin dal giorno successivo alla rivolta, l’oggettivamente ridicolo termine “Fishball Revolution” si è quindi diffuso tra i cittadini ed i media locali per definire la rivolta. Ma parlare di una “rivoluzione delle polpette di pesce” è quanto mai ingannevole: certamente non si è trattato di una rivoluzione, e, allo stesso tempo, è evidente che il benessere dei venditori abusivi è soltanto un pretesto per la violenta protesta di alcuni giovani hongkonghesi nei confronti delle istituzioni locali.
I fatti di Mong Kok si pongono quindi come il frutto – marcio – della Umbrella Revolution. Sono il risultato delle irrealistiche aspettative create dalla straordinaria mobilitazione giovanile a fine 2014, e della loro sistematica frustrazione a seguito dagli eventi politici occorsi tra il 2015 e questo primo scorcio di 2016, un periodo durante il quale nessuna delle richieste del movimento Occupy è stata effettivamente incontrata dalla amministrazione di C.Y. Leung. In questo contesto, la radicalizzazione di una frangia del movimento Occupy è diventata una classica profezia che si autoavvera, con grande piacere per i media cinesi e per quelli locali vicini a Pechino (la stragrande maggioranza). Al centro di questo processo di radicalizzazione si è imposta velocemente una nuova organizzazione studentesca-giovanile: Hong Kong Indigenous (una goffa traduzione in inglese del più articolato moniker in cantonese, traducibile come “Fronte per una democrazia locale”). Nei giorni successivi alla rivolta uno dei principali esponenti del movimento, Edward Leung, ha recitato con particolare profitto la parte dell’utile idiota nelle mani della macchina mediatica di Pechino, dichiarando: “Le nostre modalità di protesta sono coercitive, è un modo per pressare Pechino. Una guerra, o una battaglia, è inevitabile.”
Di inevitabile invece c’è stata la reazione delle forze dell’ordine locali. Il 21 febbraio, soltanto due giorni dopo le dichiarazioni di Leung e undici giorni dopo la rivolta, il leader di Indigenous, Ray Wong, latitante dopo i fatti di Mong Kok, è stato arrestato dalla polizia in un sobborgo popolare nei Nuovi Territori di Hong Kong. Ad arresto avvenuto, la polizia non ha esitato a diffondere immagine del materiale ritrovato nell’appartamento: sostanze chimiche utilizzabili per la creazione di esplosivi ed alcune armi ad aria compressa, immancabili maschere in stile “V per Vendetta” e pillole di viagra (!), ma soprattutto una cifra vicina ai sessantamila euro in contanti, che ha immediatamente dato adito alle solite speculazioni su presunti finanziamenti stranieri, sebbene Indigenous abbia dichiarato che si tratta dei fondi privati messi a disposizione dai membri.
La nuova offensiva “morbida” di Pechino contro Hong Kong
Fortunatamente, il più importante movimento studentesco all’interno del fronte Occupy, Scholarism, capeggiato dal volto della Umbrella Revolution Joshua Wong, si è rapidamente e chiaramente dissociato dalle iniziative di Indigenous, ma è ragionevole aspettarsi una forte perdita di consenso per il movimento tra la popolazione locale, almeno nel breve periodo. I fatti di Mong Kok e l’irresponsabile radicalizzazione di una frangia del movimento Occupy portata avanti da Indigenous assumono però una particolare gravità a fronte della rinnovata offensiva portata avanti da Pechino nei confronti delle libertà civili e politiche garantite dalla Basic Law di Hong Kong. Il caso più evidente è stato la detenzione extra-giudiziaria da parte delle autorità della Cina continentale di cinque cittadini hongkonghesi, impiegati presso una libreria specializzata nella vendita di pubblicazione di carattere politico-scandalistico sulla leadership comunista. Al momento, si tratta della più grave violazione dell’accordo “un paese-due sistemi” che ha governato i rapporti tra Pechino e Hong Kong sin dal 1997. Ma al di là dei casi più lampanti, la vita sociale di Hong Kong sembra costantemente afflitta da quelle che si possono definire come costanti “micro-aggressioni” allo statuto speciale della ex-colonia, dall’improvvisa decisione di usare di caratteri cinesi semplificati da parte di televisioni pro-governative (una scelta profondamente politica, visto che Hong Kong, come Taiwan, usa i caratteri tradizionali, a differenza della Cina continentale), alla proliferazione di liste civetta volte a disperdere il voto popolare per i candidati del movimento Occupy e ai ben più gravi attacchi alla libertà accademica presso la University of Hong Kong.
La grande forza della Umbrella Revolution nel 2014 fu la capacità di mantenere una protesta fondamentalmente non-violenta, e ciò è sicuramente stato uno dei motivi della sua enorme risonanza e della empatia che ha suscitato in Europa e Nord America. A fronte del meticoloso e costante attacco portato avanti da Pechino al modus vivendi della ex colonia britannica negli ultimi quattro anni, la radicalizzazione della protesta, e la sua possibile metastasi in un movimento che faccia uso della violenza a scopo politico rischia seriamente di mettere una pietra tombale sul futuro democratico di Hong Kong.
* Dottorando presso il Dipartimento di Storia della University of Hong Kong
di Paolo Pombeni
di Aurelio Insisa *
di Daniele Coduti *