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Perché Donald Trump può diventare presidente degli Stati Uniti

Francesco Maltoni * - 07.05.2016
Donald Trump

Ormai non ci sono più dubbi: a contendersi la presidenza degli Stati Uniti d'America per i prossimi quattro anni, saranno l'ex first lady Hillary Clinton e il magnate Donald Trump. La certezza, per i Democatici, è già arrivata nelle scorse settimane, con le affermazioni in serie del già segretario di Stato nella costa est e in particolare a New York. Gli avversari di Trump, invece, hanno cercato invano di prolungare la battaglia contro l'inarrestabile “marziano” che ha invaso il loro campo, mandando all'aria qualsiasi progetto di ritorno dell'establishment. Anche gli ultimi due sfidanti John Kasich e Ted Cruz hanno alzato bandiera bianca di fronte allo strapotere del milionario più chiacchierato del mondo. Se per Kasich il ritiro sembrava un atto dovuto – si è infatti imposto nel solo Ohio, Stato federale di cui è governatore – assai meno attesa era la rinuncia di Cruz, che fin dai caucus dell'Iowa si era dimostrato il solo in grado di impensierire Trump. A maggior ragione, ancor più sorrprendente è come lo stop alla sua campagna sia arrivato pochissimi giorni dopo aver annunciato il ticket con Carly Fiorina – altra ex candidata alla presidenza ed ex amministratire delegato della Hewlett-Packard. Evidentemente, per il rivale numero uno di Donald Trump aver perso le primarie anche in Indiana, dove è ampia la fetta di elettori evangelici – che rappresentano da sempre il suo zoccolo duro di consenso - deve aver costituito uno smacco troppo forte sul piano personale, con il divario dei delegati che si allarga ormai in maniera irreparabile. Così, cade anche l'ipotesi di una convention senza maggioranze: a luglio, i grandi elettori nominati dalle elezioni dell'elefantino incoroneranno Donald Trump candidato alla Casa Bianca. Basterà per rendere credibile la sua figura agli elettori storici del partito Repubblicano?

Questa è la domanda che racchiude tutte le chance di vittoria di Trump alle elezioni del prossimo 8 novembre. Quanto, pochi mesi fa, sembrava una mera ipotesi da fiction televisiva, si è rivelato una scottante realtà che nessuno tra gli osservatori era stato in grado di prevedere. Davvero, “The Donald” come viene soprannominato in America, può diventare presidente degli Stati Uniti fino al 2020, in una fase storica critica a dire poco, con il mondo in subbuglio, la minaccia terroristica sempre presente e la crescita interna da rinsaldare.

Leggere i sondaggi attuali, però, non lascia molte speranze a Trump e i suoi: nei polls nazionali, Hillary Clinton guida le preferenze dell'elettorato, talvolta anche oltre i 10 punti percentuali. E' per questo che Trump sta già cambiando strategia – si veda la recente intervista rilasciata al New York Times. Vinta la propria battaglia contro il nucleo del partito Repubblicano, ora deve presentarsi come un candidato credibile agli occhi di tutti gli americani, soprattutto a quanti si sentono legati da sempre al partito dell'elefantino. Sei mesi di tempo, dunque, per rendere la propria immagine meno estremista e anti politica, presentandosi come valido “comandante in capo” della nazione agli occhi dei puristi del Grand Old Party. Le continue affermazioni alle primarie, per Trump, sono arrivate grazie ai voti in massa di elettori disillusi e solitamente poco avvezzi al gioco democratico: sono loro ad aver colto di sorpresa analisti e front runner, lanciando il tycoon verso la presidenza. Ora, dunque, bersaglio di Trump diventano i sostenitori di Ted Cruz, di Jeb Bush, di Marco Rubio e di tutti gli altri che hanno tentato di mandarlo fuori gara. Il suo scopo è quello di riunire sotto la sua figura di completo alieno della politica di Washington, un partito Repubblicano ridotto a brandelli, che però controlla ancora entrambi i rami del Congresso e rimane in grado di dare una spinta decisiva alle sue ambizioni. Qualora, infatti, il partito accogliesse convintamente Trump come proprio portabandiera, allora le probabilità di vederlo trionfare alle elezioni di novembre salirebbero e non di poco. Da una parte, è impensabile arrivare alla Casa Bianca, da parte repubblicana, senza il supporto di Stati chiave come l'Ohio (dove ha vinto Kasich) o roccaforti come il Texas (dove è di casa Cruz). Se arriveranno gli endorsement degli ultimi due avversari sconfitti, questi feudi non saranno più così ostili al magnate. Più difficile, per Trump, riguadagnare terreno nelle fasce sociali che lo disprezzano: secondo i sondaggisti, a non vederlo con favore sono soprattutto le donne (64% di pareri negativi) e i “non-white voters” (74% contrari), ossia gli afroamericani, i latinos, gli asiatici e le altre rappresentanze del melting pot statunitense.

 

La vera sfida di novembre, in definitiva, è tra una veterana della politica che da mesi cerca di rinfrescare la propria leadership e una vera mina vagante: per Clinton, potrebbe trattarsi insieme dello scenario più favorevole – perché molto più esperta del suo avversario e nei dibattiti lo surclasserà – ma anche più scivoloso, dato che la scarsa preparazione non sembra costituire un freno sufficiente alla scalata di Trump. Forse, a conti fatti, c'è solo un modo per interrompere questa spirale: risvegliare l'America da questa ubriacatura di populismo. E solo una persona pare in grado di poterlo fare entro questi pochi mesi. Ovviamente, si tratta del presidente uscente Barack Obama, che ha già lanciato qualche frecciata a Trump – si veda la cena di commiato con i giornalisti della settimana scorsa – e potrebbe infliggergli il colpo di grazia, sostenendo con forza l'ex nemica giurata Clinton per la propria successione.

 

 

 

 

* Classe 1984, giornalista professionista, sociologo, dottore magistrale in “Mass-media e politica”. Ha svolto esperienze in Rai (sede di New York) e Sky.