PD: la vittoria del massimalismo intellettuale
Di fronte alla vittoria di Elly Schlein su Stefano Bonaccini la prima riflessione che viene d’istinto è che ha vinto “occupy pd”. Era la scimmiottatura di “occupy Wall Street” ed era stata messa in campo per protestare contro la bocciatura della candidatura di Prodi alla presidenza della repubblica da parte di una componente del partito che l’aveva approvata all’unanimità (i 101 traditori nel segreto dell’urna). L’attuale segretaria del PD faceva parte di quella manifestazione e grazie ad essa era stata subito assorbita da un partito che era alla ricerca di raccogliere nel suo seno i fermenti barricadieri. Che alla (relativamente) lunga quelli sarebbero riusciti ad occuparlo per davvero allora non ci pensava nessuno.
Eppure quel che è successo è esattamente questo: le sceneggiate di moda, le parole d’ordine delle narrazioni dei nuovi predicatori della politica televisiva, la frustrazione degli intellettuali che per sentirsi interpreti del futuro se lo devono inventare a loro uso e consumo, hanno portato a sconvolgere le normali dinamiche dei partiti politici, cioè la loro capacità di esprimere leadership producendola nel crogiolo del lavoro concreto dei propri militanti e simpatizzanti.
La vittoria di Schlein è stata netta, per quanto non strabordante, ma certo non è venuta da quel mondo dei “margini” a cui si riferisce nella sua retorica. Alle urne delle primarie si sono recati circa un milione e due di elettori: tanti rispetto a chi temeva un flop, comunque in calo rispetto al milione e seicentomila della precedente tornata (quella di Zingaretti). Soprattutto una frazione dei 5.356.183 che hanno votato PD alle elezioni dello scorso 25 settembre e di conseguenza è un’incognita se i voti raccolti dalla Schlein (circa 600mila) sono sufficienti per dire che il suo successo si trascinerà dietro una ripresa del PD. Rimane infatti la domanda se i 600mila votanti in meno rispetto alla tornata di Zingaretti siano o meno l’avanguardia di un complesso di elettori che al partito massimalista che si prefigura oggi non sono disposti a continuare a dare sostegno (e che si suppone che in parte abbiano già disertato le urne dei gazebo lasciando spazio ai pasdaran del nuovismo).
Sebbene si tenti di far passare quel che è accaduto come un evento del tutto nuovo nella storia della sinistra italiana, non è affatto così. Il conflitto fra riformisti e massimalisti è una costante della sua vicenda, diremmo sin dagli inizi. Nessuno si ricorda del mitico congresso di Reggio Emilia nel 1912, quando l’allora socialista e direttore dell’“Avanti!” Benito Mussolini sbeffeggiò come “cretinismo parlamentare” la tendenza riformista che in parte finì per essere cacciata dal partito (rendendolo il leader del momento …). La contrapposizione fra riformisti e massimalisti ha una lunga storia e a sostegno dei secondi si sono spesso schierati gli intellettuali, gli uomini al centro dei diversi palcoscenici mediatici: poco di nuovo sotto il sole.
Non è neppure nuova la ricerca di quello che un tempo si usava definire il “papa straniero”. Accadde con Prodi per stare a tempi recenti, lo fu anche Renzi in opposizione a Bersani, adesso capita con Schlein: ovviamente ogni tempo stabilisce i suoi idoli, in questo caso la donna, giovane e radicale. Sempre c’è l’attesa di cambiare, o addirittura di rottamare le oligarchie al potere. Sinora non è mai andata bene, ma potrebbe sempre esserci una prima volta.
Se è vero che nel nostro Paese cresce una domanda di stabilizzazione rispetto alla continua rincorsa al nuovismo che rimette tutto in discussione, l’aver scelto da parte della sinistra una leadership prona a quel nuovismo non porterà bene. Il voto nei gazebo sulla spinta delle passioni eccitate dal populismo diffuso a piene mani dai media è una base volatile per costruirci sopra. Vedremo se una volta giunta al potere la nuova segretaria del PD si ridimensionerà al contatto con la realtà ostica con cui dovrà fare i conti. Per farlo dovrà liberarsi di una buona quota di quelli che l’hanno sostenuta e non sarà facile, anche perché in quel caso dovrà trovare accordi con l’altra componente del suo partito, non tanto quei riformisti che disprezza, quanto gli innumerevoli cacicchi che lo hanno feudalizzato (a Nord come al Sud).
Bisognerà adesso vedere come si muoverà la metà del PD che ha sostenuto Bonaccini. Che scelga la via della scissione non può essere una prospettiva immediata: farebbero la figura di quelli che scappano dal campo di gioco portandosi via il pallone. Certo se i vincitori non consentissero loro di svolgere un’azione, la rottura diventerebbe inevitabile. Intanto c’è da tenere d’occhio come sono composti sia i gruppi parlamentari, che le classi politiche che governano i territori. Saranno in grado di lasciar sfogare la voglia di slogan della Schlein e della sua cerchia, conservando però salda la loro presa sulle sedi decidenti dell’azione politica? Sarebbe però un equilibrio che non può durare molto.
Da questo punto di vista si confronteranno due scadenze: la prima saranno le tornate di elezioni regionali e amministrative dove per vincere non contano gli slogan, ma le capacità di governo; la seconda è quella delle elezioni europee, dove invece, complice lo scarso coinvolgimento del pubblico, si può giocare a irregimentare le passioni del momento. Le seconde possono essere fuochi di paglia (ricordarsi il 40% di Renzi), le prime toccano le possibilità di tenuta o di riconquista di posizioni dalle quali si può fare dialettica col governo di destra-centro (più importante e più redditizio politicamente che fare chiacchiere sull’opposizione dura).
di Paolo Pombeni