Non dimentichiamo le radici strutturali della crisi di governo
In attesa di capire se, come caldamente speriamo, la crisi politica apertasi nelle scorse settimane si evolverà positivamente, con la nascita di un governo di alto profilo sostenuto lealmente da una maggioranza espressa dalle forze politiche presenti in parlamento, non è forse inopportuno fare qualche considerazione sulle ragioni di fondo che hanno portato a questa crisi.
In primo luogo, ovviamente, occorre porre mente al risultato elettorale del marzo 2018. Da quelle elezioni usciva confermato l’equilibrio tripolare che aveva già caratterizzato le elezioni del 2013. Semmai, rispetto a cinque anni prima, tale equilibrio era ulteriormente peggiorato, perché adesso il partito di maggioranza relativa era il Movimento 5stelle, cioè una formazione politica non solo a vocazione demagogica ma animata da un personale che, con molta buona volontà, si può definire come raccogliticcio, quando non costituito semplicemente da semicolti. A rendere la situazione ancora più cattiva, va poi considerato che, sul versante del centro destra, Forza Italia che, pur con tutti i suoi limiti, è una forza politica costituzionale e pienamente democratica, era sopravanzata dalla Lega, che è invece una forza politica toto corde demagogica, del tutto omologa e speculare al movimento grillino.
Con questi numeri in parlamento le maggioranze possibili erano solo quelle che potevano fare perno o su di un’alleanza tra Cinque stelle e Lega oppure su di un’alleanza tra Cinque stelle e Partito democratico. E nei quasi tre anni che sono trascorsi dalle ultime elezioni politiche, non casualmente credo, abbiamo sperimentato entrambe queste maggioranze. Maggioranze disomogenee in cui l’elemento di continuità (una continuità negativa, ovviamente) era dato dal partito di maggioranza relativa. Così abbiamo avuto la controriforma giustizialista voluta dal ministro Bonafede e, inoltre, una politica economica di stampo peronista solo assai parzialmente mitigata da un migliore rapporto con l’Europa che è stato garantito dal Partito democratico.
Per capire la ragioni della crisi, oltre a questo fattore particolare, legato agli equilibri elettorali del 2018, va però presa in considerazione una caratteristica del nostro sistema politico-costituzionale: quello di non essere in grado di garantire governi stabili ed efficaci. Nella cosiddetta prima repubblica la stabilizzazione del sistema era legata ad un equilibrio che, in termini descritti e non valutativi, possiamo definire come partitocratico. Un equilibrio che garantiva, sia pure in maniera impropria una certa continuità nell’azione di governo. In quella fase, se le compagini ministeriali cambiavano rapidamente, il partito di maggioranza relativa era sempre lo stesso. Venuti meno i partiti, per l’esaurimento storico del modello del partito di massa e di integrazione sociale, non siamo stati capaci di immaginare dei correttivi, che aiutassero a fronteggiare la nuova condizione in cui ci siamo trovati. In sostanza, non siamo stati capaci di promuovere una riforma costituzionale condivisa che stabilizzasse quella democrazia dell’alternanza che, in maniera empirica e in parte incoata, abbiamo sperimentato dal 1994 al 2013.
Questo problema è tornato a presentarsi puntualmente nelle settimane scorse. Non va dimenticato, infatti, che la crisi di governo che stiamo vivendo origina anche dalla nostra architettura costituzionale fondata sul bicameralismo simmetrico, per cui il governo deve ricevere la fiducia in entrambi i rami del parlamento. Se il governo avesse dovuto avere la fiducia solo dalla camera bassa avrebbe potuto continuare la sua navigazione. Perciò, al di là degli orientamenti dell’elettorato il problema di migliorare il rendimento delle nostre istituzioni resta più che mai attuale. C’è da sperare che il prossimo governo, un governo che speriamo di concordia nazionale (animato da personalità autorevoli) oltre a fronteggiare la crisi pandemica sappia anche affrontare il tema di un necessario ammodernamento della costituzione.
* Insegna presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Federico II di Napoli
di Massimo Nava *
di Maurizio Griffo *
di Stefano Zan *