Medio Oriente. La Guerra fredda intra-sunnita
Un conflitto nel conflitto. Una matrioska di battaglie a bassa intensità per il controllo del Medio Oriente. È questa la guerra – fredda - che si combatte in Siria, nel Golfo e, soprattutto, in Egitto. Se le primavere arabe hanno evidenziato la competizione tra Islam sunnita e Islam sciita per la supremazia regionale, l’intervento con il quale, il 3 luglio, l’esercito egiziano ha deposto Mohammed Mursi - il presidente espressione della Fratellanza Musulmana - ha scatenato la più latente guerra all’interno della compagine sunnita.
Guerra che si combatte su più fronti e che vede contrapposti membri della stessa famiglia. Da una parte i sostenitori di quell’Islam politico rappresentato dall’ormai opaco e screditato modello turco che ha gioito per le rivoluzioni del 2011 e ha criticato la deposizione di Mursi. Dall’altro i simpatizzanti dell’Islam wahabita di origine saudita che ha fatto il possibile per contenere i “pericolosi” effetti delle primavere, sostenendo anche l’uscita di scena del rappresentante della Confraternita egiziana.
Le dinamiche interne al Consiglio di Cooperazione del Golfo, Ccg - l’organizzazione che riunisce Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar – mostrano il montare di questo conflitto. La goccia che ha fatto traboccare il contenzioso è stata la protezione che il Qatar - piccolo, ma importante, battitore libero del Ccg – ha concesso ai Fratelli Musulmani, soprattutto attraverso Al-Jazeera, l’emittente qatarense che ha sostenuto a spada tratta Mursi durante la sua breve, deludente e sempre più autoritaria, esperienza al potere. Così facendo, il Qatar avrebbe disatteso l’accordo con il quale il 23 novembre si era impegnato a rispettare il principio di non-ingerenza tra stati fratelli, ponendo fine al sostegno dato a chiunque potesse rappresentare una minaccia per la sicurezza e la stabilità del Ccg.
Per arginare Doha, i Saud hanno tirato fuori le unghie. Prima il ritiro del suo ambasciatore dal Qatar, poi l’annuncio della chiusura degli uffici di Al- Jazeera a Riyad. Affiancati dagli Emirati Arabi Uniti e dal Bahrein, i reali sono arrivati alla resa dei conti con Doha, costringendola, il mese scorso, alla firma di un accordo con il quale il Qatar si è impegnato - almeno formalmente - a cambiare posizione. Basta etichettare l’intervento dei militari egiziani come golpe. Basta sostenere la Fratellanza. Per rimanere nel Ccg, Doha deve contribuire a preservare la sicurezza e la stabilità regionale.
Per raggiungere questi obiettivi, Riyad ha messo fuori legge, a marzo, i Fratelli Musulmani. Una mossa per mostrare solidarietà – oltre a quella già evidente attraverso i generosi assegni girati ai militari egiziani – all’esercito del Cairo che già a dicembre aveva riconfinato la Confraternita alla clandestinità. Ma non solo. Mettendo fuorilegge quel movimento islamista la cui influenza si è fatta sentire nei dintorni di Riyad a partire dagli anni ’50 – cioè da quando la Petromonarchia ha accolto i Fratelli perseguitati dal presidente egiziano Gamal Abdel Nasser – l’Arabia Saudita ha anche cercato di spegnere scomodi focolai interni. Tra questi Sahwa al –Islamya, un movimento che, ispirandosi alla Fratellanza, ha cercato di diffondere tra i sauditi quell’Islam politico che prende le distanze dal più radicale wahabismo dei Saud.
Mettendo fuorilegge la Fratellanza e minacciando ripercussioni legali sui suoi sostenitori, l’Arabia Saudita ha anche cercato di mettere i bastoni tra le ruote alle cellule qaediste dell’Islam sunnita che reclutano uomini per ampliare le fila dell’opposizione al regime siriano. Quell’ala dell’opposizione più estremista che la Casa Bianca ha messo nella sua lista nera-
La vittoria di questa guerra fredda è una questione delicata anche per il primato religioso dell'Arabia Saudita, custode delle due moschee più sacre all’Islam. Per vincerla i Saud stanno generosamente corteggiando possibili alleati. In primis l’Egitto, campo di battaglia dove solo negli ultimi mesi Riyad ha inviato più di 4 miliardi di dollari. In cambio, i militari egiziani hanno garantito la sopravvivenza di quel wahabismo rappresentato dalla compagine salafita che ora sostiene la candidatura di Abdel Fattah al Sisi, l’ex generale a capo dell’esercito destinato a diventare il prossimo presidente.
A tifare per l’Arabia Saudita sembra essere anche la Casa Bianca, la stessa che ha inizialmente criticato l’intervento militare in Egitto e che – secondo quanto dichiarato dallo stesso Sissi- avrebbe chiesto all’esercito di riflettere almeno 48 in più prima di deporre Mursi. Per tranquillizzare i suoi storici alleati sauditi ricchi di petrolio e preoccupati della stretta di mano con l’Iran sciita, un gruppo di deputati Repubblicani ha recentemente presentato un disegno di legge che prevede nuovi accordi militari tra Stati Uniti e Ccg. Tra gli obiettivi annunciati c’è anche il contenimento di Teheran.
Anche se alcuni deputati americani temono che questa mossa possa, come in passato, ritorcersi contro gli interessi del proprio Paese, gli Stati Uniti, come l’Europa e l’Italia, sembrano tifare per la “stabilità” dello status quo. Tanto nel Golfo che in Egitto. Nessuno senza preoccuparsi della sostenibilità di questa “stabilità”.
* Ricercatrice IAI
di Paolo Pombeni
di Azzurra Meringolo *