Match point

La lunga parentesi del contratto di governo, dalla sua genesi al risultato delle elezioni europee, è stata in realtà una alternanza di riposizionamenti interni, una sequela di conferme e distinguo, una interminabile diaspora che ha toccato i livelli più esacerbati nei toni e nei modi proprio in prossimità del voto del 26 maggio. Se le metafore descrivono per parole ed immagini la realtà e le sue allegorie, questa infinita campagna elettorale può essere paragonata ad una estenuante partita a tennis, con ace vincenti, volée incrociate, passanti diritti, set point mancati, tie break interminabili. Ma all’esito del voto tra i due contraenti conflittuali- oltre alla sensibile ripresa del PD e alla crescita di FDI - c’è stato un solo vincitore: Matteo Salvini che ha portato la Lega ad un risultato straordinario, raccogliendo consensi da nord a sud e ribaltando i rapporti di forza nella compagine governativa.
Raddoppiando i voti rispetto alle politiche 2018 mentre il M5S li ha drammaticamente dimezzati.
Nel film “Match point” di Woody Allen è la pallina che picchia nella rete e cade nel proprio campo la metafora esplicativa del destino che gestisce realtà e apparenze, anche nelle loro contraddizioni: così è nella politica poiché ciò che appare risolutivo è il colpo vincente che spiega il risultato, offrendo una chiave di lettura dei rapporti di forza, determinando sconfitta e vittoria, disvelando nella cruda realtà dei numeri ciò che prima appariva camuffato o indecifrabile dall’incessante ed estenuante susseguirsi di sondaggi d’opinione altalenanti ma pur sempre rivelatori di una deriva in corso.
La politica è fatta di idee ma ciò che conta sono appunto i numeri e i seggi: all’esito del voto il risultato è inequivocabilmente a favore della Lega, primo partito in Italia e proiettato a contare non poco nella gestione delle alleanze e degli schieramenti del Parlamento di Strasburgo.
Il lungo palleggio da fondo campo imposto da Di Maio sulla questione morale, l’enfasi sulla vicenda del sottosegretario Siri, l’autoinvestitura a depositario unico dei valori di onestà e trasparenza, l’insistenza sul tema della corruzione, il protrarsi della vicenda TAV e soprattutto i ripensamenti sul decreto sicurezza, quel ripiegamento prima al centro e poi a sinistra per raccogliere consensi più come forza di opposizione che di governo, populista e moderato al tempo stesso sembravano aver messo in difficoltà il contraente-Salvini e in effetti gli stessi sondaggi avevano colto segnali di flessione del Carroccio proprio alla vigilia del voto.
Ma il risultato finale non lascia spazio ad interpretazioni diverse: la Lega stravince e il M5S straperde.
Per merito indubbiamente di Salvini cui va riconosciuta con onestà intellettuale – oltre le valutazioni di merito su idee e programmi - la coerenza di non aver mai messo in discussione il contratto di governo sottoscritto (ciò che si è rivelata abile strategia) , quando invece Di Maio alimentava tutti i dubbi possibili sulla solidità della compagine leghista e sugli aspetti critici dei suoi cavalli di battaglia ideologici: la sicurezza, la difesa dei confini nazionali, le grandi opere, la negoziazione con l’Europa partendo da presupposti apparentemente inconciliabili con future alleanze nell’U.E. e sulla credibilità stessa del leader leghista, adombrata in modo malcelato.
La pallina del match point è invece caduta al di là della rete, dopo aver toccato il nastro in una interminabile sospensione mozzafiato in mezzo al campo.
L’eloquenza del risultato elettorale misura la capacità di convincimento del leader leghista e la sua straordinaria penetrazione tra i cittadini-elettori, insistendo su pochi, chiari concetti che visivamente Salvini ripeteva come un mantra numerandoli con la conta delle dita, come farebbe un alunno che recita le tabelline.
Dove ha fallito il M5S, se si può immaginare un provvisorio bilancio del deludente risultato?
Innanzitutto contando troppo sugli attuali rapporti di forza in Parlamento, che restano ma dovranno misurarsi con la realtà del Paese -nei suoi orientamenti attuali- completamente ribaltata, senza contare l’aver trascurato con disprezzo la lente opera di ricostruzione del PD avviata da Zingaretti che ha portato ad un sorpasso inimmaginabile alla vigilia, ma eloquente in modo schiacciante con quei 5 punti e mezzo di percentuali di voti che mettono il partito del Nazareno in condizione di essere la seconda forza politica del Paese.
Ma anche nella ostentazione di una sicumera moraleggiante che non ha convinto i cittadini, nel posizionarsi contemporaneamente a fianco dei gilet gialli più esacerbati nella protesta (senza tener conto che la vera alleanza che contava era quella tra Salvini e la Le Pen) e a ridosso degli orientamenti più moderati del ceto medio italiano.
Ora, è certo che Di Maio non è né Fanfani né Moro, né Andreotti anche se la virata al centro moderato aveva il sentore di una autocandidatura per gestire da quella posizione gli equilibri parlamentari e governativi in caso di rotture del contratto: esattamente ciò che non ha fatto Salvini marciando come un treno verso una direzione mai rimessa in discussione in modo “doroteo” o maldestro.
Ma soprattutto nel merito delle azioni di governo patrocinate dai 5 stelle non ha convinto il reddito di cittadinanza, nella sua rappresentazione progettuale, nell’enfasi tradita delle promesse mancate, nella delusione dei risultati, nell’enorme dispendio di denaro pubblico in una scelta demagogica e improduttiva che ha superato persino la logica dei bonus (bebè, 18enni, docenti, 80 euro ecc.) e si è codificata nell’immaginario collettivo come una sorta di mancia pre-elettorale, una prebenda senza esiti incisivi, una partita a termine dai risultati sottostimati, caratterizzata dall’assenza di un apparato burocratico-organizzativo in grado di supportarla.
L’aver elargito il reddito prima della selezione dei navigator ( peraltro con criteri di scelta indefiniti ed aleatori e senza vaglio concorsuale) ha reso questa operazione un “pasticciaccio” che ha deluso la maggior parte dei percipienti e ha avvelenato coloro che hanno fiutato il costo di questa operazione per la collettività, divaricando se mai il gap tra aspiranti lavoratori dagli orientamenti incerti e imprese dove un adeguato incentivo al welfare aziendale avrebbe facilitato eventuali assunzioni (come risulta anche dal recente Rapporto Welfare Index PMI 2019).
Per la prima volta il secondo partito di una coalizione governativa ribalta le proporzioni di forza e diventa il primo partito. Ciò significa che allo stato attuale viene a mancare una corrispondenza tra “paese reale” e “paese delle istituzioni”. Ora si aprono diversi scenari: la Lega potrebbe cogliere il momento favorevole e il consenso schiacciante per rompere il contratto e invocare elezioni anticipate. Sarebbe tuttavia una scelta dagli esiti incerti: assai meglio pare gestire i nuovi rapporti di forza dall’interno.
Sullo sfondo si profilano altre soluzioni: un centrodestra compatto alle urne (tutte le regioni del Nord esprimono questa coalizione) e maggioritario nel Paese, la crescita del PD e un possibile ritorno di Renzi sulla scena politica per ricompattare un centro moderato e popolare che tenga conto anche del lento declino di FI.
Ma sono tutte dietrologie.
Dopo il successo elettorale la Lega cercherà di contare di più in Europa e ciò potrà condizionare anche i futuri assetti di governo.
Mentre Di Maio deve fare i conti con il limite del doppio mandato e l’eventuale ritorno di Di Battista al centro della scena a fronte di eventuali nuove elezioni politiche.
Senza contare che la democrazia virtuale nella sua impercettibile invisibilità ha stancato: la gente chiede fatti, lavoro e al centro mette la “sicurezza sociale” in tutti i suoi aspetti.
Il voto italiano per l’Europa ha dato un responso netto e chiaro.
Ma per contare in Europa dovremo prima dirimere le questioni interne. Al momento il quesito si riduce a questa scelta: si può continuare l’attuale storia, riscrivendola, o siamo già ai titoli di coda?
* Ex Dirigente ispettivo MIUR
di Paolo Pombeni
di Francesco Provinciali *