Macron e Parigi alla prova del Covid
Quella legata al Covid-19, come tutte le crisi strutturali, ha evidenziato una serie di criticità già in atto finendo per estremizzarle. Anche la Francia, da questo punto di vista, ha mostrato tutte quelle difficoltà di adattamento al XXI secolo più volte emerse nell’ultimo ventennio.
Nel suo terzo discorso televisivo alla nazione dall’esplosione della pandemia il presidente Macron, senza dichiarare chiusa la fase dell’emergenza sanitaria, ha avanzato alcune linee guida per la possibile ripartenza del Paese. Dopo l’atteggiamento quasi marziale e il tono simile a quello del Gaulle del 18 giugno 1940 di marzo (“siamo in guerra”), dopo il lirismo e l’intimismo di aprile (“è necessario reinventarsi, io per primo”), è giunto il tempo dello sguardo di medio-lungo periodo. Obiettivo ricostruzione e allo stesso tempo campagna elettorale per una complicata, ma non impossibile, rielezione tra meno di due anni.
Occorre innanzitutto sottolineare la dimensione più contingente dell’intervento di Macron. L’inquilino dell’Eliseo ha enfatizzato la definitiva riapertura del Paese, simboleggiata dalla ripresa delle attività di ristorazione e dei bar (le brasserie e i cafés nell’immaginario collettivo dei francesi non sono meri luoghi fisici, ma veri e propri luoghi dello spirito) e da quella di tutte le scuole, a partire dal 22 giugno e con l’obbligo di frequenza. Molte scuole materne, elementari, medie e licei erano già aperti, ma con frequenza su base volontaria. Dal 22, e anche se soltanto per una quindicina di giorni, il sistema scolastico tenta un ritorno alle lezioni in presenza che vale molto più di tanti slogan. Importante è cogliere la dimensione simbolica della scelta, il messaggio da inviare al Paese: la Francia non potrà ripartire senza il riavvio vero del suo sistema scolastico. Sempre rispetto a tale dimensione contingente, i venti minuti di dialogo tra il presidente e la “sua” nazione devono anche essere interpretati come un primo passo nel tentativo di recupero di una centralità presidenziale in parte offuscata dall’attivismo del Primo ministro Edouard Philippe. Dopo una prima fase di robusta crescita del livello di fiducia del presidente, da inizio giugno il calo è stato consistente e il Primo ministro lo ha abbondantemente superato in termini di soddisfazione per il suo operato. Ci sarà modo di tornare sul complicato rapporto tra Presidente e Primo ministro nel quadro delle istituzioni della V Repubblica, ma rispetto alla contingenza l’immagine di un Primo ministro potenziale avversario anche in vista dell’appuntamento del 2022 non ha certo giovato a Macron.
Se dal contingente si passa al medio-lungo periodo, cioè a quella necessità complessiva di reinventarsi di fronte alla crisi pandemica, le riflessioni di Macron hanno toccato tre ambiti cruciali.
Prima di tutto la dimensione economica. La crisi sanitaria ha evidenziato in maniera drammatica ciò che era già noto e cioè il processo di de-industrializzazione, unito ad una conseguente dipendenza dall’estero, in particolare in settori strategici come quello sanitario. L’economia del futuro, ha scandito il presidente, dovrà essere “solidale, ecologica, forte e sovrana”. Al netto della propaganda (“sovranità ed indipendenza economica”), uno degli effetti principali della pandemia è quello, anche nel contesto francese, di aver riportato al centro dell’attenzione la necessità di rilocalizzare o comunque accorciare le cosiddette “catene del valore”. Sarà impossibile cancellare con un colpo di spugna decenni di delocalizzazioni e sarà complicato, almeno in alcuni settori, tornare a produrre francese, ma alla presa di posizione ideologica seguiranno importanti sviluppi produttivi. Anche perché i concetti di sovranità e indipendenza nell’universo macroniano ottengono una chiara declinazione continentale.
E il richiamo alla dimensione europea è il secondo punto cruciale. Qui Macron può contare su almeno tre anni di elaborazione ideale. Sin dalla campagna elettorale e in maniera ancora più accentuata nei primi mesi di mandato, egli ha sfruttato al massimo il cosiddetto gaullo-mitterrandisme applicato al processo di integrazione europea, rivendicando la necessità di un’Europa sempre più coesa, che protegge i suoi cittadini e proietta la Ue in una coerente posizione di “terza forza” di fronte alla nuova sfida globale dai tratti sino-americani. In questo senso l’emergenza Covid-19 e il ritorno dell’asse franco-tedesco costituiscono, nelle parole di Macron, una tappa “inedita” nello sviluppo dell’europeismo del dopo Guerra fredda. Ma osservando in particolare il ruolo francese nel processo di integrazione, parafrasando un famoso volume di Bossuat che ben definisce l’obiettivo dei leader transalpini dal 1950 in poi e cioè “Costruire l’Europa senza distruggere la Francia”, si potrebbe dire che Macron, preso atto delle difficoltà, abbia deciso di “Ricostruire la Francia attraverso l’Europa”.
Il terzo e ultimo punto interroga in maniera diretta le istituzioni della Quinta Repubblica. La crisi pandemica ha confermato una tendenza in atto a partire dalla riduzione del mandato presidenziale da sette a cinque anni. La verticalità e la centralità dell’inquilino dell’Eliseo, il suo essere l’ultima risorsa, ma anche una figura sovraesposta, diventano problema e soluzione allo stesso tempo. L’elezione presidenziale e la scelta del nuovo “monarca repubblicano” racchiudono grandi aspettative che regolarmente diventano frustrazione, con conseguente trasformazione del presidente in carica in una sorta di capro espiatorio e avvio della ricerca di un nuovo “monarca”, da incoronare mentre l’altro sarà rapidamente ghigliottinato. Il dualismo Presidente/Primo ministro finisce per accentuare questa logica. Percepito come collaboratore dall’Eliseo, l’inquilino di Matignon spesso si trasforma in equilibratore, arrivando a superare il Presidente nei sondaggi di opinione e a configurarsi come un competitor interno. Accanto a questa dinamica di potenziale crisi sistemica della V Repubblica, l’emergenza sanitaria ha poi evidenziato una profonda frattura centro-periferia. Anche la Francia ultra giacobina ha mostrato tale tendenza, ancora una volta tutta scaricata sul presidente della Repubblica, il quale, pressato da una serie di richieste spesso contraddittorie, vede indebolirsi la sua posizione e quella complessiva del sistema democratico.
Troppo spessp una parte consistente della classe dirigente del nostro Paese, seguita da una quota crescente dell’opinione pubblica abbracciano la logica del “mal comune mezzo gaudio”. L’idea di una Francia un po’ più “italiana”, che fatica ad uscire dall’emergenza sanitaria, non sembra dispiacere alle nostre latitudini. E’ certo che le difficoltà francesi hanno pesato nell’indurre Parigi a fare pressioni sostanziali su Berlino, sino a condurla ad una chiara risposta europea alla crisi. Tutto ciò ha infine permesso di accreditare un fronte dei Paesi del sud, non più sarcasticamente definibile Club Med. Una volta però delineatasi questa svolta e tornato in campo l’asse franco-tedesco, sarebbe meglio (almeno per noi italiani) un rafforzamento francese, in modo che il rapporto Parigi-Berlino possa mantenersi nella forma meno squilibrata possibile.
Il Covid-19 ha cancellato le ultime illusioni. Parigi, nonostante le sue velleità, è oramai una media potenza, saldamente ancorata al continente europeo e alla politica mediterranea. Invece di disperdere energie, dovrebbe prendere realisticamente atto della propria posizione nel contesto globale e in quello europeo in particolare. Il compito di Macron è titanico, ma è questo. Potrà forse riuscirvi trovando la giusta miscela tra volontarismo politico-economico e sforzo pedagogico. La via è tracciata. Ma il suo tempo, così come il nostro, stringe drammaticamente.
di Paolo Pombeni
di Michele Marchi
di Francesco Provinciali *