Le incognite dell’elezione presidenziale
La battaglia per il Quirinale è una delle poche competizioni politiche ricche di rigide regole non scritte, ma che riserva esiti quasi sempre imprevedibili. Ripartiamo dall’articolo pubblicato su questa rivista il 22 novembre 2014 per delineare i fattori, le consuetudini e i piccoli particolari determinanti per la scelta del Capo dello Stato. Anche in questa occasione è azzardato avventurarsi in pronostici che dipendono da molti fattori ma, soprattutto, dagli umori dei mille e più "grandi elettori". Con la riforma costituzionale sul “taglio” dei parlamentari, questa volta sarà l'ultima con un collegio elettorale così folto (630 deputati, 315 senatori più quelli a vita e di diritto, 58 delegati regionali): la prossima volta saranno in tutto poco più di 660, al posto degli attuali mille. Possiamo tracciare alcune caratteristiche che serviranno ai partiti (e agli eventuali "franchi tiratori") per orientare le proprie scelte. Durante la Prima Repubblica c'era la regola dell'alternanza fra i democristiani e gli altri. Era concepita come un equilibrio di medio-lungo periodo, perché abbiamo avuto elezioni consecutive di non Dc (1946 e 1948: De Nicola, Einaudi), di democristiani (1955 e 1962: Gronchi, Segni), ancora di Dc (1985, 1992: Cossiga, Scalfaro) e di non Dc (1999 e 2006-2013: Ciampi, Napolitano) per concludere con un altro Dc (2015: Mattarella). La vera e propria alternanza “perfetta” ha avuto luogo fra il 1964 e il 1985: in seguito all’elezione di Segni (Dc, 1962) sono stati scelti, nell’ordine, Saragat (Psdi, 1964), Leone (Dc, 1971), Pertini (Psi, 1978) e Cossiga (Dc, 1985). Alla lunga, tutto finiva per equilibrarsi. Se la regola fosse ancora valida, anche se riferita a cattolici (non necessariamente ex o neo Dc) e laici (e probabilmente lo è) nel 2022 dovrebbe salire al Quirinale un laico. Si vedrà. Tutte le forze del vecchio "arco costituzionale" hanno avuto un Capo dello Stato: sei volte la Dc (1955, 1962, 1971, 1985, 1992, 2015), una il Pci (Napolitano, eletto però due volte: 2006, 2013), una i socialisti (1978, Pertini), una i socialdemocratici (1964, Saragat), una i liberali (1948, Einaudi), una i repubblicani-azionisti (1999, Ciampi), una i monarchici (1946, De Nicola). Naturalmente le attribuzioni partitiche tengono conto più della vicinanza ad un'area politica che ad effettive adesioni, come nel caso di Ciampi. Tuttavia, le forze che hanno approvato la Costituzione sono state rappresentate. Mancano i partiti entrati in Parlamento dopo la Costituente e quelli nati durante la Seconda Repubblica, come Msi-FdI, Verdi, Lega, Forza Italia e Radicali (in quest'ultimo caso, però, va ricordato che Emma Bonino è proposta - ma mai realmente sostenuta con convinzione – soprattutto alle elezioni presidenziali del 1999). Fra le caratteristiche di un perfetto candidato al Colle ce ne sono due particolarmente interessanti: non essere stato a capo di un partito (unica eccezione Saragat) e aver ricoperto un importante incarico istituzionale. Nel cursus honorum (al momento dell’elezione o pregresso) degli “inquilini del Quirinale” abbiamo: otto (in nove occasioni: va aggiunto il bis di Napolitano) presidenti di un ramo del Parlamento (Camera, Senato, Assemblea costituente); quattro “premier” (Segni, Leone, Cossiga, Ciampi); due governatori della Banca d'Italia (Einaudi, Ciampi). Quindi, dovremmo inserire fra i teorici candidati (tanto per fare qualche nome a puro titolo d'esempio) Casini e Pera (presidenti d'Assemblea) ma anche Amato, Berlusconi, Gentiloni (ex premier) oltre a Draghi (Governo e Banca d'Italia); va aggiunto alla lista qualche giudice costituzionale (lo era Mattarella, lo è Amato; fra gli ex abbiamo Cartabia e Cassese). La sintesi potrebbe essere raggiunta con la scelta di un “cattolico laico” (Draghi o Gentiloni), con un passato nelle istituzioni ma non alla guida di un partito: questo è solo un possibile identikit, perché le consuetudini possono anche cambiare. C'è poi un dato geografico, una nota di colore: solo 6 regioni su 20 hanno dato al Paese un Capo dello Stato. Tre la Campania (De Nicola, Leone, Napolitano), tre il Piemonte (Einaudi, Saragat, Scalfaro), due la Sardegna (Segni, Cossiga), due la Toscana (Gronchi, Ciampi), uno la Liguria (Pertini), uno la Sicilia (Mattarella). Alcune grandi regioni (la Lombardia, l’Emilia-Romagna, il Lazio: ma stavolta ci sono in lizza il lombardo Berlusconi, i romani Draghi e Gentiloni e l’emiliano Casini) non hanno mai avuto un "proprio" presidente. Come si diceva, gli aspetti più seri della scelta del Capo dello Stato sono altri. Non solo il comportamento al momento di "entrare nell'arena" (ce ne occuperemo oltre) ma anche lo stile, la capacità di interpretare un ruolo che secondo la Costituzione è identico dal 1948 ma che ogni inquilino del Colle ha vissuto a modo suo. Possiamo cercare di riunire gli "stili" presidenziali in tre gruppi. Si va da un ruolo prevalentemente "notarile" (De Nicola, Einaudi, Leone, il "primo" Cossiga, Ciampi, Napolitano pre-crisi economica, Mattarella fino al gennaio 2021) a un bilanciamento dettato in parte dalla personalità e da particolari evoluzioni politiche del Paese (Segni, Saragat, Scalfaro, Napolitano dal 2010 in poi, Mattarella al momento della nascita dell’attuale governo) a uno stile "decisionista" e "interventista" (Gronchi, Pertini, il "secondo" Cossiga). Com'è noto, il ruolo del Presidente della Repubblica è strettamente connesso allo "stato di salute" del sistema politico-istituzionale. Se i partiti sono deboli, al Quirinale è richiesto un ruolo che può andare dalla semplice "moral suasion" ad una sostanziale "supplenza". Si è parlato di “semipresidenzialismo”, ma la fisarmonica dei poteri quirinalizi può assicurare buoni risultati in tal senso senza mutare l’assetto istituzionale. Il Capo dello Stato può essere anche il motore di alcune svolte politiche: il primo esempio (non coronato da successo) fu quello di Gronchi. Eletto per rendere più facile l'"apertura a sinistra", Gronchi finì invece per essere ricordato come una sorta di "proto-gaullista" italiano: si comprese già col suo discorso (un po' troppo "programmatico”) d'investitura (1955), poi si proseguì con la "politica estera del Quirinale" (le "istruzioni" ai diplomatici italiani ricevuti al Colle, le proteste nel '57 per l'esclusione dell'Italia dal gruppo di lavoro per la questione tedesca, il commento al discorso del vicepresidente USA Nixon, i viaggi negli USA e soprattutto nell'URSS) oltre all'uso del "potere d'esternazione" ("viva vox Constitutionis", disse Calamandrei), per concludere con l'esperienza di un vero e proprio "governo del Presidente" (Tambroni, 1960; taluni, però, reputano che per altri versi e con differenti caratteristiche, anche il governo Pella del '53 voluto da Einaudi lo fosse). Il secondo presidente interventista fu Pertini, che adottò uno stile del tutto diverso rispetto ai suoi predecessori e (oltre a conferire per la prima volta nella storia repubblicana l'incarico di formare il governo anche a personalità del mondo laico: a Ugo La Malfa nel 1979, per un tentativo che fallì, poi a Spadolini nel 1981 e a Craxi nel 1983) restituì credibilità alle deboli istituzioni degli “anni di piombo”. I partiti, in quel settennato, "convissero" faticosamente con Pertini, il quale uscì dal Quirinale, nel 1985, insalutato ospite. Infine, il "secondo" Cossiga, che dopo anni di gestione notarile intuì prima di altri che il mondo stava cambiando e interpretò il suo tempo facendo un uso molto ampio e controverso dei suoi poteri. Fu autore, fra l'altro, di un importante messaggio alle Camere sulle riforme istituzionali che resta uno dei maggiori contributi in materia. Riassumendo, i "grandi elettori" dovranno scegliere prima lo stile desiderato e solo dopo il candidato più adatto ad interpretarlo, anche se il settennato è lungo, le contingenze politiche mutevoli e non sono escluse sorprese (come nel caso di Cossiga, fra tutti). C'è poi la questione di quale "alleanza" porterà all'elezione del successore di Mattarella, legata in parte anche al numero degli scrutini (se si elegge al primo, l'intesa deve essere ampia): coinciderà con la coalizione di governo, sarà allargata a Fratelli d’Italia, sarà espressione di uno dei due poli o sarà "trasversale"? Qui giungiamo al punto conclusivo. L'elezione del Presidente della Repubblica è spesso contraddistinta dall'imprevedibilità dei pronostici. Talvolta il Capo dello Stato è scelto dopo che i principali concorrenti non hanno superato la prova dell'urna. Alcuni sono "eterni candidati" che restano tali; altri, sconfitti nelle precedenti occasioni, hanno la rivincita; altri ancora, invece, arrivano al Quirinale da outsider; pochi, infine, sono il frutto di un accordo forte (come Cossiga e Ciampi). Una delle regole principali che il candidato deve cercare di rispettare è quella di non esporsi troppo per non farsi “bruciare” dai “franchi tiratori”. Le circostanze che portano all'elezione sono inoltre influenzate da fattori di ogni genere, alcuni dei quali legati ad eventi drammatici (l'"onda lunga" dell'uccisione di Moro, 1978; la strage di Capaci, 1992; l'impossibilità di raggiungere un'intesa sul nome del successore di Napolitano, 2013). Ogni volta l'elezione del Presidente è il simbolo di una stagione politica o l'anticipazione di quella futura: può rappresentare un elemento di continuità, di fedeltà ad una formula (il centrosinistra: Saragat, 1964) oppure un “bilanciamento” rispetto ad una svolta (anche in questo caso, il centrosinistra: Segni, 1962) o, ancora, una scelta “pacificatrice” e stabilizzatrice del quadro politico (De Nicola 1946, Einaudi 1948, Ciampi 1999). La stessa dinamica delle votazioni può produrre sviluppi sulle alleanze: una coalizione per il Presidente può far nascere un’intesa per il governo, oppure può servire semplicemente per scompaginare equilibri esistenti, non necessariamente precostituendone di nuovi. Inoltre, sebbene molti peones temano che dopo il voto per il nuovo Presidente abbia luogo lo scioglimento anticipata delle Camere, va ricordato che sarebbe un’assoluta novità: nessun neoeletto ha preso una decisione così importante e tormentata nei primi giorni del suo mandato (sarebbe peraltro interpretata come un segno di debolezza del Capo dello Stato, impreparato a risolvere una crisi di governo già alla sua prima prova). Non tutto si può intuire subito, anche se il percorso che si è seguito per individuare l’“inquilino del Colle” e la personalità dell’eletto sono elementi utili per cercare di comprendere quale quadro politico-istituzionale si va preparando. Ecco perché la posta in gioco è sempre alta, i contendenti numerosi, i criteri e le variabili pressoché infinite. Il tutto, mescolato in un'urna che si diverte a riservare sorprese.
di Luca Tentoni
di Francesco Provinciali *
di Raffaella Gherardi *