Le incertezze di un passaggio storico

Non sappiamo se si possa già parlare di una svolta storica dopo la sceneggiata tra Trump, Vance e Zelensky messa in onda dallo Studio Ovale: perché un episodio si trasformi da singolo evento, bello, brutto, o, come nel nostro caso, orripilante, in un momento storico di cambiamento è necessario attendere cosa accadrà. Non fosse altro perché le conseguenze possono essere molteplici.
Consentiteci di sottrarci ai ragionamenti di quelli che parlano di realpolitik senza sapere cosa sia e di quelli che vogliono accreditarsi come censori della storia: le faccende sono molto più complicate. Prima di tutto non è chiarissimo se Trump non abbia costruito apposta lo scontro in mondo visione per mascherare quello che può essere un suo primo fallimento: aveva promesso di chiudere il conflitto russo-ucraino in pochi giorni, mentre, questione dei tempi necessari a parte, deve riscontrare che Putin non ha nessuna intenzione di consentirgli una vittoria a meno che non contenga anche quella totale della Russia. Come si può immaginare, non solo a queste condizioni per The Donald non sarebbe un gran risultato (la gente non è del tutto cieca), ma non sarebbe neppure accettabile per l’America.
Con la sceneggiata crede di aver scaricato sul presidente ucraino la colpa del fallimento della sua promessa. La rappresentazione può avere funzionato per quelli che volevano vederla così ancor prima che andasse in scena, ma ha rafforzato la simpatia per la causa ucraina in tutti gli altri. Diciamo subito, per esempio, che la storiella per cui la realpolitik dimostrerebbe che il grosso si mangia sempre il piccolo è contraddetta dalla storia vera: altrimenti non si spiegherebbe come l’Italia si sia unificata contro il volere dell’Impero asburgico, come il Vietnam del Nord e i talebani abbiano prevalso sugli USA (e si potrebbero citare altri casi).
Con questa consapevolezza bisogna guardare alla situazione così come si sta evolvendo. L’ostinazione di Putin a volere la sua vittoria totale è ciò che rende complicatissimo sbrogliare la matassa: si capisce che per lo zar russo è un problema di sopravvivenza, perché il costo della guerra che ha scatenato non sarebbe giustificabile in termini di risorse umane e materiali (migliaia di morti russi e un mezzo disastro economico) senza il raggiungimento del suo obiettivo vero, che non è la conquista di una striscia per quanto non piccola di territori, ma l’eliminazione dell’Ucraina come stato autonomo che si è collocata fuori dell’orbita del suo ipotetico impero, di cui a suo parere deve fare parte per ragioni storiche.
Sembra di capire che invece Trump pensi, o si illuda di poter trovare la quadratura del cerchio: ristabiliamo il sistema delle “sfere di influenza” come fu dopo Yalta e questo consentirà di avere una Ucraina semi-vassalla di Mosca (con il trucco delle elezioni per un nuovo presidente, terreno su cui le abilità manipolatorie russe sono note), ma non platealmente asservita, tanto che agli americani sarà consentito esserci per “fare affari” (con le miniere di terre rare e con la inevitabile ricostruzione).
Si può dubitare che Putin si accontenti di ciò, se non per un breve periodo transitorio che gli serve per rabberciare le sue debolezze, ma nell’immediato potrebbe funzionare, perché comunque il novello zar potrebbe farsi proclamare vincitore assoluto dalla sua propaganda e Trump potrebbe presentarsi come il salvatore della pace (con Salvini che lo candida al Nobel – si ricordasse come è finita poi per Mussolini che nel 1938 rientrò da Monaco con una simile corona di latta…).
In Europa molti leader hanno capito la complessità della situazione: sicuramente vale per Stati che hanno una importante tradizione ed esperienza in politica estera come Gran Bretagna e Francia, sembra stia accadendo in Germania, la quale pure nel post 1945 ha imparato molto in questo campo, e anche (possiamo dirlo?) in Italia dove pure abbiamo delle tradizioni diplomatiche che vengono sottovalutate. Poi naturalmente in ogni situazione ci sono peculiarità che pesano, retaggi storici che non si cancellano, psicologie e storie diverse dei singoli leader, il che porta alla necessità di costruire un consenso fra differenze ed anche fra situazioni peculiari nelle varie opinioni pubbliche.
Passare da un sistema internazionale in cui, bene o meno bene, il concerto euro-atlantico aveva consentito per i paesi che ne facevano parte una certa divisione dei ruoli lasciando il peso della presenza militare in parte preponderante sugli USA, ad una nuova costellazione in cui l’Europa deve mettere in gioco una presenza complessiva come “quasi-stato” (che è ancora lontana dall’essere) non è una evoluzione da poco (per di più dovendo recuperare la presenza britannica indispensabile sul piano politico e militare). Si può comprendere che siamo in presenza di un cambiamento che metterà alla prova le diverse leadership degli stati europei non solo in rapporto alle rispettive opinioni pubbliche (le quali nella maggioranza dei casi sono restie ad accettare un contesto di possibili conflitti militari), ma forse ancor più nei rapporti inter-statuali, per la preoccupazione che uno o alcuni dei membri prevalgano in termini di leadership sugli altri (basta guardare alle resistenze verso il ruolo di Macron).
A nostro modestissimo giudizio, è per questo complesso di fattori che la soluzione della questione ucraina diventerà discriminante per capire se l’attuale situazione potrà portare ad una crisi definitiva dell’ordine in qualche modo sancito dopo la fine della Guerra Fredda e dunque alla necessità di instaurare di qualcosa di nuovo che richiederà tempo e travaglio (speriamo non sanguinoso), oppure se si riuscirà a ricondurre tutto nel quadro di un aggiustamento degli equilibri sin qui consolidati, cosa che potrebbe anche trovare il supporto di attori diversi da quelli classici protagonisti della fu Guerra Fredda (Cina, BRICS, ecc.).
di Paolo Pombeni