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L'analisi del sabato. La XVII legislatura al giro di boa

Luca Tentoni * - 29.08.2015
Inaugurazione XVII legislatura

Con la ripresa dei lavori parlamentari inizia la seconda metà della legislatura. Oggi come nel 2013, i temi dominanti sono l'economia e le riforme istituzionali. Negli ultimi due anni la situazione si è molto evoluta, su entrambi i fronti. Su quello dell'economia, nonostante le nubi che arrivano dalla Cina, è facile constatare che l'Italia non subisce più la pressione sui titoli di Stato che ha caratterizzato in particolar modo il periodo 2011-2013, mentre su quello delle riforme abbiamo - dopo un progetto esaminato nel 2013 e poi accantonato - un testo che (al di là dei giudizi di merito) interviene sul bicameralismo e sul rapporto Stato-regioni. Sono cambiati anche, nel frattempo, i rapporti di forza fra i gruppi parlamentari e la composizione della maggioranza di governo: siamo passati dalla "grande coalizione necessitata" di Letta a un governo Renzi sostenuto da un'alleanza che politicamente, forse, non è più occasionale e transitoria. Nata sotto il segno dell'emergenza (nell'impossibilità di eleggere persino il Capo dello Stato), la legislatura si è dipanata seguendo un percorso non sempre lineare, ma ricco di colpi di scena, di scissioni, di nuove combinazioni parlamentari. Anche l'elettorato non è rimasto fermo sulle posizioni del 2013: alle politiche attribuì all'incirca lo stesso peso a tre poli (Pd-Sel; Pdl-Lega; M5S) ma già alle europee del 2014 portò il Pd sopra il 40%, per rimescolare di nuovo le carte in occasione delle regionali e soprattutto delle comunali 2015. Questa fluidità, accompagnata da un elevato astensionismo, fa pensare che da qui alla fine (naturale o anticipata) della legislatura, l'"assestamento" del corpo elettorale possa riservare altre sorprese. Se la partita del consenso è aperta, dunque, quella parlamentare non è affatto chiusa. In Senato sta per riprendere la battaglia sulla riforma istituzionale, giunta ad un passaggio decisivo. È inutile negarlo: il ddl costituzionale che uscirà da Palazzo Madama (se riuscirà a uscirvi: una repentina crisi che porti ad elezioni anticipate resta un'ipotesi debole, ma da non scartare) sarà quello definitivo, o perchè si sarà raggiunto un accordo per modificarlo, o perchè Renzi riuscirà a ottenere il sì dei senatori sul testo attuale. Di fatto, una volta licenziato dal Senato, il progetto di riforma potrebbe essere considerato pressochè acquisito, almeno fino al referendum confermativo (che rappresenta un'incognita). In questo modo, la seconda parte della legislatura sarà (o potrebbe essere) tutta - anche sul piano mediatico - dedicata all'economia: un banco di prova difficile, perchè la ripresa è ancora flebile, sia sul piano occupazionale che su quello della crescita. Poichè, in tempi di crisi, le scelte di politica economica e i loro effetti sono decisivi per gli orientamenti di voto, è facile pensare che nei prossimi due anni tutto si giocherà su questo tema. Del resto, con l'Italicum in vigore dalla seconda metà del 2016 e il referendum costituzionale in primavera o, al più tardi, nell'autunno del prossimo anno, il dossier delle riforme si potrebbe chiudere (con quale esito è presto dirlo, ma probabilmente in modo definitivo per parecchi anni). La battaglia delle prossime settimane sul ddl costituzionale è decisiva per il futuro della legislatura e del governo, perchè se non si trovasse un accordo e se l'eventuale prova di forza dell’Esecutivo non avesse buon esito, potremmo trovarci presto di nuovo alle urne per il rinnovo del Parlamento. In quel caso, voteremmo col sistema ritagliato dalla Consulta per Camera e Senato (senza premi alle coalizioni) col probabilissimo risultato di avere due rami del Parlamento senza maggioranze precostuite (nel 2013, invece, a Montecitorio il centrosinistra ottenne i 340 seggi spettanti al raggruppamento più votato). Forse andare ad elezioni subito non converrebbe a nessuno: il Pd si ritroverebbe con un minor numero di deputati, il centrodestra andrebbe in ordine sparso, il M5S non avrebbe alcun "premio" da un sistema (il Consultellum) quasi puramente proporzionale (con l'Italicum, invece, potrebbe giocarsi la vittoria e la maggioranza dei seggi tentando di accedere al ballottaggio). Certo, se Renzi uscisse sconfitto dalla partita delle riforme e pensasse di poter gestire meglio la situazione col ricorso al voto anticipato, difficilmente non sarebbe esaudito dal Quirinale: la consistenza numerica dei gruppi parlamentari del Pd (soprattutto a Montecitorio) rende impossibile un nuovo governo che non abbia la guida o almeno l'imprimatur dell'attuale Presidente del Consiglio. Alcuni ipotizzano inoltre che, in caso di sconfitta sulle riforme, Renzi riesca a far passare una "leggina" che anticipi l'entrata in vigore dell'Italicum alla Camera e lo estenda al Senato. Far approvare una norma siffatta, tuttavia, richiede una maggioranza che in quel caso, con la defezione della minoranza Pd, non ci sarebbe più. Le elezioni anticipate, insomma, sono un'arma caricata a metà, non il jolly che il governo può giocare sul tavolo delle riforme. Così come lo è l'opposizione della minoranza del Partito democratico: se la legislatura è a rischio, non è escluso che in sostegno del ddl costituzionale arrivino voti (più o meno occasionali) del trasversale (e nascosto) "partito del 2018", cioè di chi punta a restare senatore il più possibile, preferibilmente fino alla fine naturale della legislatura. Ad oggi i duellanti sembrano in una posizione di equilibrio e di attesa, ma il tempo per trovare un accordo o arrivare allo scontro si riduce sempre di più. Un'intesa assicurerebbe un percorso tranquillo alla riforma e permetterebbe alla legislatura di proseguire senza scossoni. Una prova di forza, invece, potrebbe produrre esiti drammatici. Sarebbe l'ennesimo colpo di scena di una legislatura tormentata, segnata fin dall'inizio da un malessere mai del tutto superato.

 

 

 

 

* Analista politico e studioso di sistemi elettorali

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