La solita questione del partito conservatore
La celebrazione dei dieci anni di Fratelli d’Italia ha assunto un particolare rilievo per il fatto di avvenire dopo che quel partito a settembre aveva vinto in modo significativo le elezioni e la sua leader aveva assunto il ruolo di guida del governo. Il tutto è reso più complesso dal fatto che si è di fronte ad un cambio di maggioranza politica: dal centrosinistra alla destra-centro, da questo punto di vista una novità nella storia dell’Italia repubblicana che aveva in precedenza conosciuto solo governi di centro-destra.
La puntualizzazione non è pignoleria. Il dibattito che riguarda il tema di cosa si possa considerare una politica “di destra” è da tempo vivo in questo paese e si confonde con la questione del rilievo da dare alla presenza di un partito “conservatore” che, secondo una schematizzazione sulla cui fondatezza si può discutere, dovrebbe nel contrasto con un partito “progressista” costituire la normalità della politica. Questo nel quadro dell’altra semplificazione che riduce tutto ad uno scontro fra “destra” e “sinistra”.
Nell’immiserimento attuale del dibattito politico, la confusione che regna su faccende del genere è massima ed ha più a che fare con i pregiudizi (a volte proprio pretesti) che guidano opposte tifoserie che non con temi di qualche rilievo. Eppure nella attuale contingenza politica il rapporto fra “destra” e “conservatorismo” non è irrilevante, specialmente per il partito che attualmente ha, o vorrebbe avere, l’egemonia sulla coalizione vincitrice nella competizione elettorale.
Fratelli d’Italia ha in astratto una natura ibrida: da un lato deriva dall’evoluzione della destra nostalgica del fascismo, e ancor più di quel ceto politico che non è stato parte della fondazione dello stato repubblicano post 1945 rimanendone poi ai margini; dal lato opposto è stato creato quando ormai il significato di quelle radici andava appannandosi e si acuiva invece la componente che puntava alla contrapposizione se non anche all’alternativa ad una onda di costume culturale che accentuava le spinte radicali di una esaltata modernizzazione. Abbiamo così la compresenza di due tipologie politiche: quella che reclama la rivincita di un presunto “polo escluso”, che tale sarebbe per il suo essere “di destra”, e quella che si proclama difensore di un quadro che rifiuta la radicalizzazione dei costumi e una presunta resa ad un mondo che non potrebbe più mantenere il sistema stabilizzatosi lungo i decenni del Novecento, una tipologia dunque di “conservatorismo”.
Giorgia Meloni, non sappiamo quanto consapevolmente, si trova sballottata fra le due componenti. Per la sua storia non può sentirsi estranea alle sirene della “rivincita” del vecchio polo escluso; per la sua intelligenza politica capisce che se si vuole passare da minoranza che ha vinto una battaglia a maggioranza che si stabilizzerà nel tempo è necessario marginalizzare il revanchismo e accentuare la componente conservatrice, che è quella che più intercetta le angosce della gente di fronte ad un mondo in crisi di transizione.
Se volessimo dirla tutta, aggiungeremmo che la tradizione politica italiana è stata a lungo quella di partiti che tenevano dentro componenti contrapposte: a partire dalla DC che faceva convivere conservatori, talora anche piuttosto ottusi, e governatori, anche molto coraggiosi, del cambiamento sociale, per arrivare al PCI con la convivenza fra quelli che, almeno a parole, volevano l’abbattimento del capitalismo e quelli che, magari con un po’ di artifizi, prospettavano il suo superamento per modificazioni interne successive che di fatto lo miglioravano facendolo continuare. In tempi più recenti qualcosa di simile hanno provato a fare sia il vecchio partito berlusconiano sia i partiti che hanno ereditato la dissoluzione della vecchia sinistra.
Giorgia Meloni e il suo gruppo dirigente possono riuscire a percorrere quella vecchia strada? Non ci sembra siano più i tempi. Non tanto per problemi contingenti che pure non vanno sottovalutati: ogni volta che c’è un cambio nel controllo del potere di distribuzione della politica si fanno avanti gli “esclusi” di un tempo (e quelli che si accaparrano quel titolo senza averne diritto) e reclamano la loro fetta di torta. Lo abbiamo visto con Forza Italia, con PDS-DS-PD, con Lega e M5S, e, se si volesse valutare con freddezza, non è che l’Italia ci abbia guadagnato un gran che. Soprattutto perché in un quadro di radicalizzazione generale della politica la convivenza di impostazioni divergenti è impossibile (quelli che predicano la bellezza delle “componenti plurali” difendono solo le rispettive riserve indiane).
Un partito conservatore è una componente per mantenere un quadro che si è stabilizzato nei decenni evitando che una continua corsa al mutamento per il mutamento metta in crisi il mantenimento di un certo contesto. Il conservatorismo non è mai “reazionario”, non propone il ritorno a passati mitici, a rigore non è neppure populista, perché sa che ogni fuga nell’utopia anche se “passatista” è un incentivo alla destabilizzazione e dunque all’avventura. Ora, se proviamo a declinare ciò in qualche dettaglio, comprendiamo le difficoltà che incontra un partito come FdI che nasce avendo al suo interno non poche istanze reazionarie: si tratta di accettare la storia e il contesto del nostro costituzionalismo repubblicano, di capire che non si possono rincorrere i sogni di ritorno al passato mitico di società in contesti avulsi dalle trasformazioni sociali e culturali, di lasciar perdere le pulsioni al motto del “adesso è la mia volta”, e via elencando.
L’affermarsi nella dialettica politica italiana di un partito conservatore sarebbe un miglioramento complessivo perché costringerebbe il progressismo ad abbandonare le derive del massimalismo e del radicalismo demagogico per ritornare al riformismo. L’impresa per Giorgia Meloni e i suoi compagni di avventura è assai ardua e non sappiamo neppure se davvero lei ha voglia di impegnarvisi.
di Paolo Pombeni