La politica che deve scegliere
Non è semplice decifrare questa fase politica e ancor meno lo è decifrare Renzi. Il suo intervento all’assemblea del PD è stato un atto di battaglia anche se non si riesce a capire quale ne sia l’obiettivo. Indubbiamente il premier-segretario ha deciso di entrare in prima persona nella battaglia parlamentare sul ddl Cirinnà, cambiando linea rispetto a quel che aveva fatto sino ad ora. Ma non si è limitato a questo e bisogna tenere conto anche del resto.
Sul problema delle Unioni civili sembrerebbe che si sia scelta una linea di accordo con la coalizione che sostiene il governo, sino al punto di ventilare la possibilità che sul punto venga posta la questione di fiducia. E’ una sfida alla sinistra interna del PD e un cambiamento rispetto a quella che sembrava la scelta precedente, cioè di usare quel ddl per fare la famosa “cosa di sinistra” che lo coprisse verso una quota del suo elettorato. Se oggi si cambia registro, significa che quel risultato non viene più ritenuto garantito e che si preferisce non mettere a rischio la tenuta del governo.
Ovviamente in questo gioco di machiavellismi c’è da tenere conto anche dello scontro con il M5S, a cui Renzi vuole addebitare la impossibilità di portare a casa il risultato “di sinistra”. Prontamente Di Maio si è invece dichiarato disponibile a votare il ddl così com’è, consapevole che in questo caso probabilmente si porterebbe a casa la sua approvazione integrale, ma col risultato di mettere in seria crisi la coalizione di governo. Probabilmente per questo il premier ventila l’ipotesi della questione di fiducia sul controverso tema dell’adozione del figliastro nelle coppie omosessuali, perché ciò impedirebbe alla sinistra dem di far blocco coi grillini, a meno che non accettassero di buttar giù il governo e di andare alle elezioni anticipate.
Quello però è un esito che ben pochi auspicano, non fosse che per i molti rischi che una simile soluzione comporta: prima di tutto quello che non si capisce se si voterebbe o no anche per il Senato, considerando che sarebbe un po’ difficile posporre le elezioni a dopo il referendum confermativo di ottobre.
Renzi tuttavia non si è fatto chiudere solo nella questione-trappola delle unioni civili. Ha rilanciato sui temi più generali della situazione internazionale soprattutto a fronte della crisi della UE. Certo non ha resistito dallo sfoggiare il consueto repertorio del suo populismo, attaccando i politici di professione, gli intellettuali dei salotti, e in generale quelli che criticano la sua politica senza comprendere lo sforzo che fa per tenere alto il prestigio dell’Italia e difendere l’interesse nazionale. Va detto che qui è caduto nel peggior repertorio di un genere ampiamente sfruttato da tutti i leader che sono in difficoltà.
Eppure avrebbe potuto avere argomenti ben più solidi. Indubbiamente la sostanza della sua battaglia in Europa è condivisibile e gli va dato atto del coraggio che mostra nel sostenerla. Ciò che è discutibile sono da un lato i toni con cui la combatte, che sono buoni per l’opinione pubblica interna e assai meno per conquistare leadership negli ambienti di governo internazionali, e dall’altro lato la sottovalutazione della debolezza del nostro paese che ha la palla al piede di un sistema oppresso non solo da un enorme debito pubblico, ma da una vischiosità notevole che non fa fare che passi da lumaca a tutte le riforme che pure il governo ha avviato.
Si ha l’impressione che Renzi tenda un po’ troppo ad abusare della minaccia del “dopo di me il diluvio”. Il problema esiste, non c’è dubbio, ma non è detto che sia una ragione sufficiente perché l’elettorato accetti qualunque situazione. Per esempio sulla prospettiva del referendum confermativo delle riforme costituzionali il premier ha ragione quando sottolinea che una bocciatura implicherà, per coerenza, che coloro che le hanno promosse a caro prezzo (cioè lui e il suo gruppo dirigente) ne traggono le conseguenze dimettendosi. Non dovrebbe però puntare tutte le sue carte semplicemente su questo spauracchio, che non è poi detto sia capace di trascinarsi dietro una mobilitazione di consenso generalizzato.
Come nel caso del ddl Cirinnà lasciare campo libero alle grandi tensioni nel paese può rivelarsi una tattica molto rischiosa: alla fine comunque vada si lasciano in campo contrapposizioni che hanno prodotto divisioni insanabili e che si trascineranno per lungo tempo. Non è una buona prospettiva proprio nell’ottica di quel completamento delle riforme a cui il governo Renzi deve pure puntare, perché dovrebbe sapere che le riforme camminano se sono condivise e sostenute dall’opinione pubblica, altrimenti vengono boicottate e lasciate cadere. Inoltre, comunque sia, prima o poi si andrà a votare: molti pensano che difficilmente si giungerà a fine legislatura nel 2018, ma, fosse pure così, a quella prova non ci si potrà sottrarre.
Un paese aspramente diviso non sarà allora in grado di consentire un passaggio sereno verso un nuovo governo e se manca questa serenità non solo abortiranno le riforme, ma diventeremo un facile bersaglio per i nostri competitori internazionali. Sono cose che nella storia di questo paese si sono già viste e non guasterebbe un po’ di umiltà nel considerare che non c’è garanzia perché quei meccanismi si ripetano se non si lavorerà per costruire un consenso che, pur con tutte le inevitabili e necessarie dialettiche, sia orientato alla ricerca di un equilibrio fra le componenti della nazione.
di Paolo Pombeni
di Francesca Del Vecchio *