La partita che si giocherà in Europa
L’attenzione verso la politica si concentra su aspetti certo non marginali, ma non per questo decisivi: molta eccitazione per il previsto duello televisivo Schlein-Meloni (spettacolo più che altro), conflitto interno alla maggioranza sulle candidature alle regionali in Sardegna (ma qualcosa di non troppo diverso c’è anche a sinistra), polemichette varie su parlamentari pistoleri, manifestazioni neofasciste, inchieste per corruzione. Eppure la questione fondamentale per il nostro futuro si colloca in Europa e su questo, almeno pubblicamente, l’interesse sembra scarso.
La tornata di elezioni per il parlamento della UE che si terrà il 9 giugno è vissuta dalla nostra classe politica come una specie di grande sondaggio certificato: l’obiettivo è testare quanto consenso avrà ciascun partito e magari anche ciascun leader. Della quota di elettorato che non si pronuncia nei sondaggi, circa il 40%, ci si preoccupa poco, nonostante che visto quel che è successo nelle precedenti tornate elettorali ci sia da aspettarsi una quota anche maggiore di astensionismo. Temiamo che in fondo i politici non vogliano impegnarsi più di tanto a risvegliarlo, per la semplice ragione che nessuno sa in quali direzioni si orienterebbe (ovviamente in pubblico ogni partito sostiene che il ritorno in campo degli astenuti farebbe crescere il suo bottino elettorale, ma sono parole al vento).
L’obiettivo di portare a casa il miglior risultato possibile nel “sondaggio certificato” di giugno oscura qualsiasi seria riflessione sulla necessità per il nostro paese di disporre nel parlamento europeo di una rappresentanza qualificata che possa davvero incidere sulla politica. Fra il resto una seria gestione della campagna per le europee ci aiuterebbe non poco ad ottenere poi un commissario di peso nel futuro esecutivo di Bruxelles.
L’ipotesi di candidare come capolista addirittura in tutte le circoscrizioni i vertici dei maggiori partiti è una palese dimostrazione di scarso senso delle istituzioni. Tutti sanno che Meloni, Schlein e altri del genere se eletti non si dimetterebbero dalle loro attuali posizioni per andare a lavorare a Bruxelles/Strasburgo: quello che cercano è mostrare il plebiscito che sono in grado di raccogliere per poi lasciare il posto ad altri. Una pessima legittimazione per poi avere quella presenza nella politica europea che pure, come vedremo, sarà necessaria. Quanto alla scelta delle candidature, per quel che se ne sa per adesso, sono usate per “dare un posto” a personale politico che deve lasciare posizioni nei governi dei comuni e delle regioni o per riconfermare qualche eurodeputato: anche questo non un gran criterio per selezionare capacità di muoversi nel complicato mondo della UE.
Ma perché diciamo che il momento è particolarmente delicato per noi? Non si tratta solo di garantirsi buone possibilità di tutelare i nostri interessi più strettamente di bottega, cosa peraltro da non sottovalutare viste le non poche partite aperte che abbiamo con le autorità della UE (non da ultimo per la faccenda, niente affatto chiusa, del PNRR). Si dovrebbe valutare il prossimo momento di ridefinizione degli equilibri politici ai vertici della UE, cosa che potrebbe davvero, se solo ne avessimo le capacità, consentirci l’inserimento in una posizione realmente di peso nel gruppo di guida dell’Unione.
Come si sa, fino a ieri a dominare era l’asse franco-tedesco attorno a cui si aggregavano tanto gli spagnoli, quanto i cosiddetti paesi frugali del Nord Europa: un raggruppamento che non è stato soprattutto negli ultimi tempi (vedi la vicenda del patto di stabilità) particolarmente attento alle esigenze italiane né disponibile a farci spazio. Ora però tanto in Germania quanto in Francia i governi sono in condizioni di difficoltà.
Il governo Scholz fronteggia una insoddisfazione popolare che proprio in questi giorni è diventata clamorosamente visibile con la rivolta dei contadini, che protestano contro il taglio delle condizioni di favore praticate all’agricoltura (a causa del necessario reperimento di fondi per sostenere politiche pubbliche per le quali non erano più disponibili i fondi previsti a causa di una sentenza della Corte Costituzionale). Si tratta però solo della punta dell’iceberg, perché il grande allarme è la crescita esponenziale della estrema destra della AfD, che per esempio in Turingia sta sfiorando la possibilità di conquistare il governo di quel Land, ma che in gran parte del paese si colloca al 20% e oltre dei consensi.
In Francia il presidente Macron ha dovuto costringere alle dimissioni la sua primo ministro Etienne Borne (il termine “costretta” è stata usata da lei stessa nella sua lettera di dimissioni) travolta dal crescente calo di consensi a cui dall’Eliseo si spera di mettere un freno promuovendo alla guida del governo un “uomo nuovo” di giovane età. Anche qui la crescita della destra non si arresta ed è un segnale preoccupante.
Ora si può pensare che nel futuro equilibrio europeo, il governo tedesco debba cedere alla preminenza dell’opposizione della CDU, così come Macron vede in forse la possibilità di giocare una partita chiave col suo partito liberale “Renew Europe”. In queste condizioni le possibilità di avere un ruolo di rilievo per l’Italia crescono se Meloni riesce da un lato ad abbandonare i vecchi lidi del revanchismo di destra, senza paura che ne approfitti Salvini (che in Europa è un signor nessuno), e dall’altro a stabilire una convivenza civile con una parte cospicua dell’opposizione, perché un paese a livello UE è autorevole se mostra una compattezza larga e trasversale delle sue classi dirigenti.
Sono condizioni non semplici da conseguire se ci si trova intrappolati nella piccola politica politicante che continua a fare da sfondo alle nostre vicende nazionali. Eppure senza un salto di qualità su queste tematiche le nostre classi politiche potranno anche fare un bello spettacolo disputandosi i successi a suon di percentuali di voti, ma resteranno marginali nella nuova fase che andrà ad aprirsi in Europa.
di Paolo Pombeni