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27 marzo 2024
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La lotteria del 4 marzo

Pasquale Pasquino * - 27.01.2018
Renato Mannheimer

All’avvicinarsi della scadenza del 4 marzo sembrano ormai diventare più chiari i possibili esiti della tornata elettorale. Al tempo stesso il risultato finale delle elezioni rispetto a questi esiti sembra rassomigliare sempre di più ad una lotteria. Vediamo perché.

Va detto, innanzitutto, che diversi fattori rendono azzardata ogni previsione. Fra questi, il possibile numero degli astenuti, probabilmente in leggera crescita nei confronti delle ultime elezioni legislative, ma soprattutto la novità della formula elettorale, il cui mode d’emploi risulta ignoto e per certi versi incomprensibile, per ora e forse fino al giorno delle elezioni, ad una grande maggioranza di elettori (si veda il sondaggio di Renato Mannheimer pubblicato il 20 gennaio su Il Giornale). Ci sarà infatti un rischio di numerose schede non valide. Peraltro, la novità dell’algoritmo di trasformazione di voti popolari in seggi parlamentari rende arduo e magari ingannevole il confronto con precedenti tornate elettorali basate su formule elettorali diverse. Un confronto che ceteris paribus aiuta a orientarsi circa il futuro. Ma nel caso presente il nuovo meccanismo di trasformazione di voti in seggi rende particolarmente difficile penetrare il futuro.

Detto ciò, gli esiti del voto sembrano due e solo due, ed è possibile identificare dove l’alternativa sarà decisa, ma non in che direzione. Certo è che Berlusconi, resuscitato dal voto referendario del 4 dicembre 2016, in occasione del quale l’alleanza fra conservatori, difensori dello statu quo costituzionale e veterocomunisti ha prodotto il miracolo della sua resurrezione, torna ad essere l’attore politico focale di qualsivoglia prossimo governo. Egli si trova nella posizione privilegiata di colui che è dinanzi a due forni, per adoperare una formula celebre, la cui scelta sarà conseguenza del voto: se ci sarà una vittoria dell’alleanza di destra, Berlusconi ne sarà verosimilmente l’azionista di maggioranza rappresentando la forza più consistente in seno a quella coalizione; se quella vittoria non ci sarà, si troverà comunque nella condizione del partner col più forte potere coalizionale di un’alleanza da costruire, che riprodurrebbe quella del tanto amato, dai nemici di Renzi, governo Letta del 2013. Altre ipotesi di maggioranza parlamentare sembrano stravaganti e pochissimo probabili.

Essendo queste le due possibili opzioni – delle cui poche virtù dirò fra poco – è possibile individuare il luogo geografico dove la scelta prenderà forma: le regioni a sud di Roma. Come è spesso accaduto anche in passato. Se è verosimile che la grande maggioranza dei collegi uninominali a nord dell’Emilia andranno a confortare i voti proporzionali della coalizione elettorale di destra, è probabile anche che, malgrado qualche défaillance, i collegi nelle vecchie zone rosse restino alla sinistra (ma LEU potrebbe, come nella “gloriosa” tradizione della sinistra radicale, confermarsi il migliore alleato della destra, anche reazionaria e oggi antieuropea – che la sinistra da sola possa vincere le elezioni è la più grossa panzana della campagna elettorale in corso). Sono i voti del Sud e in particolare quelli del reparto maggioritario, che decideranno le sorti del governo di Roma. Se infatti il M5S dovesse ottenere un certo numero importante di suffragi, le chances dell’alleanza di destra di conquistare la maggioranza di seggi nel parlamento rischierebbero di essere ridotte in modo significativo. E Berlusconi dovrebbe acconciarsi ad un’alleanza con il PD, e con chi ci sta, per evitare un inutile e pericoloso, dal punto di vista finanziario, ritorno a nuove elezioni. La destra deve fare il pieno a sud del Liri e del Garigliano per tornare ai fasti del 1994; produrre il miracolo del diavolo e dell’acqua santa: far votare nello stesso modo il nord est e il sud del paese, che si guardano in cagnesco. Ma il M5S, il terzo incomodo, può forse impedirle questa impresa.

Nei due casi le coalizioni: quella fra la destra moderata e filoeuropea e quella nazionalista lepenista, oppure quella fra FI, il PD e chi ci sta – difficile da mettere in piedi, dopo una dissennata campagna elettorale di tutti contro tutti – saranno entrambe coalizioni, fragili, litigiose e, dunque, instabili. Certo, quella centrista avrà almeno in comune una posizione piuttosto attenta al nostro essere parte dell’Unione Europea. Senza la quale per il nostro paese non c’è salvezza. Auguri.





* Distinguished Professor in Politics and Law, at New York University