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17 aprile 2024
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L’ignoranza al potere? Il DEF 2014 e l’accantonamento della ricerca pubblica

Marco Mondini * - 22.04.2014
Università di Bologna

«Non sono tagli, ma solo accantonamenti». Così disse il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini (in un intervista rilasciata al quotidiano Repubblica). Nelle intenzioni del ministro il termine «accantonamento» dovrebbe suonare più rassicurante. I 200 milioni di euro di «revisione» previsti dal Documento di programmazione economica e finanziaria (art. 50, comma 6 del testo presentato alla stampa)  sul fondo ordinario di finanziamento delle Università statali (30 per l’anno finanziario in corso, 45 a regime per ogni anno fino a fine legislatura) non diventeranno realtà. O, almeno, è questa l’interpretazione più ottimistica. A oggi non è chiaro in effetti quale significato esattamente vada attribuito alle parole: «per ragioni di copertura finanziaria abbiamo dovuto mettere quella voce a bilancio» ma «siamo al lavoro» per trovare il risparmio all’interno del budget ministeriale senza toccare il fondo ordinario. Secondo alcuni dei soggetti interessati, come l’Associazione dei Precari della Ricerca, si tratta di un gioco di parole che nasconde (male) un’amara realtà fin troppo nota: razionalizzazione della spesa pubblica, in Italia, significa fondamentalmente decurtazione degli investimenti su istruzione e ricerca (http://ricercatoriprecari.blogspot.it/ ). Ma mentre la scuola è, nel programma dell’attuale governo, un teatro di conquista del consenso particolarmente rilevante, la situazione dell’università e dei centri di ricerca pubblici sta a cuore ad una platea relativamente ristretta di elettori: tagliare il nastro di un nuovo edificio scolastico in diretta televisiva paga in termini di popolarità, il finanziamento alla ricerca di base no.

Da questo punto di vista, è facile spiegarsi il silenzio imbarazzato del ministro, del resto in buona compagnia. Nessuno tra i quotidiani, i siti internet, i telegiornali e gli speciali televisivi che per un po’ più di ventiquattro ore si sono votati ad illustrare le magnifiche sorti progressive inaugurate dal nuovo corso del DEF, si è accorto (o ha voluto accorgersi) di questo (ennesimo) colpo di forbice alle risorse per la ricerca pubblica. Forse, il taglio di poche decine di milioni è apparso un’inezia trascurabile. Nel contesto di una manovra di «razionalizzazione» della spesa pubblica di alcuni miliardi, può sembrare così. In realtà quei (relativamente) pochi milioni di euro sono un colpo pressoché mortale al sistema. Perché?

Partiamo da un dato poco noto (ma abbastanza deprimente). Il Fondo di finanziamento ordinario degli atenei statali italiani  assommava nel 2013 a circa sei miliardi e duecento milioni di euro, e raggiungeva i sei miliardi e settecento milioni includendovi anche le università per stranieri e le Scuole superiori universitarie, come la Normale o il Sant’Anna. In termini assoluti, a partire dal 2001 (assunzione dell’incarico ministeriale da parte di Letizia Moratti) è cresciuto di oltre settecento milioni; in termini reali, a netto dell’inflazione, la dotazione complessiva del Ministero per il finanziamento di tutte le strutture universitarie italiane è inferiore di circa un centinaio di milioni a quella del 1996. Alla drastica riduzione delle risorse si è accompagnata una disastrosa politica di castrazione dei possibili investimenti e rinnovamenti del sistema. Il depauperamento dei trasferimenti statali è stato accompagnato da una rigorosa normativa di blocco del reclutamento: negli ultimi anni, non solo le università non hanno potuto assumere nuovo personale, ma la maggior parte dei pensionamenti non sono stati rimpiazzati. Il risultato è che il corpo docente e di ricerca del sistema pubblico italiano è oggi non solo inadeguato in termini numerici (i ricercatori e professori del sistema pubblico italiano sono il 25% in meno degli equivalenti europei) ma anche terribilmente vecchio. Il 9 aprile il Consiglio Universitario Nazionale ha pubblicato uno studio allarmante: per impedire il collasso del sistema dell’istruzione universitaria, sarebbe necessario prevedere il reclutamento nei prossimi quattro anni di poco meno di ventimila professori associati e ordinari.

Parallelamente, il tentativo di passare da una assegnazione di spesa «storica» ad una «qualitativa» (un’università verrà premiata in base alla qualità del suo insegnamento e alla sua produttività nella ricerca) è stato fino ad ora un fallimento. Il processo di Valutazione della qualità della ricerca (VQR) ha portato in effetti alla formalizzazione e alla pubblicità di quelle profonde sperequazioni nella qualità del sistema universitario peraltro ben note (informalmente) ad ogni studente. Tuttavia, la «classifica delle università» non ha portato affatto alla razionalizzazione della spesa che ci si aspettava. Non solo il «fondo premiale» teoricamente da ripartire in base ai meriti è stato ridicolmente basso (poco più del 13% del Fondo Ordinario nel 2013), ma la giungla delle clausole di salvaguardia con cui i fondi ministeriali sono stati ripartiti fa sì che la valutazione ricevuta complessivamente da un ateneo impatti in termini irrisori sull’insieme del budget: che un’università proponga ai suoi studenti insegnamenti ottimi e abbia laboratori eccellenti in ambito internazionale, oppure tiri a campare,  conta, nell’Italia di oggi, mediamente poche centinaia di migliaia di euro.

In questo quadro disastroso, i tagli previsti dalla nuova «razionalizzazione» della spesa del governo Renzi che impatto avranno? In un sistema cronicamente sotto-finanziato, la mancanza di quei «pochi» milioni di euro avranno conseguenze facilmente prevedibili (e disastrose).  In primo luogo, impedire ancora una volta il rinnovamento del corpo docente: meno risorse per un ateneo significa non poter assumere, e quindi non sostituire i professori e ricercatori che vanno in pensione. In secondo luogo: deprimere ancora di più la qualità degli investimenti in ricerca. Quando un ateneo o un istituto di ricerca deve raschiare il barile, a netto delle spese incomprimibili (per il personale e la gestione delle strutture in sicurezza) cancella prima di tutto gli investimenti in ricerca, quindi meno offerta innovativa, meno pubblicazioni di qualità, meno brevetti. Alla faccia dell’Italia che dovrebbe ripartire.

 

 

* Ricercatore fondazione Bruno Kessler - Professore a contratto Università di Padova.