Ultimo Aggiornamento:
16 marzo 2024
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La grande crisi dei partiti italiani

Michele Iscra * - 20.02.2021
Partiti

Se ne parla da molto tempo, ma ormai è divenuta evidente a tutti la crisi in cui versano i partiti politici italiani, o meglio la “forma” che essi avevano assunto dalla svolta di fine Ottocento e che oggi è del tutto evaporata. Non si tratta solo del rinsecchirsi dei meccanismi tradizionali di adesione: tesseramenti, militanza di base, esistenza di sedi sparse nella maniera più capillare possibile sul territorio. Certo questo magari sopravvive, ma è un elemento secondario, a partire dal fatto che si è praticamente persa ogni sembianza di gestione collettiva dell’azione del partito: gli aderenti, formalizzati o meno che siano (perché si tende a considerare tali anche coloro che un tempo venivano catalogati come semplici “simpatizzanti”), non contano più gran che nella determinazione degli indirizzi dell’azione politica.

Ovviamente l’uso di strumenti che sono di fatto di manipolazione demagogica, come sono lo svolgimento delle cosiddette selezioni “primarie”, per non parlare dei referendum svolti attraverso piattaforme informatiche (spesso neppure controllabili), non identificano un coinvolgimento “democratico”. Questo non è mettere a disposizione degli aderenti qualche occasione per esercitare una selezione orientata in anticipo e ristretta a quanto serve in un momento particolare, ma dovrebbe essere l’offerta di luoghi in cui sia possibile concorrere all’elaborazione di una linea politica. In opportune sedi stabili, almeno in teoria la possibilità di intervento dovrebbe essere costante e garantita a tutti per poi arrivare al vertice attraverso un meccanismo di selezione delle rappresentanze.

Tuttavia non è neppure sulla crisi di questo aspetto (crisi comune a tutti i partiti europei) che vorremmo attirare l’attenzione dei lettori. Il dato forse più interessante è la sostanziale scomparsa dei partiti come agenzie di elaborazione di interpretazioni sul futuro della comunità in cui si inseriscono. Questa elaborazione è comunemente definita come “ideologia”, termine ambiguo sotto cui si accorpano tanto filosofie dell’azione (più o meno elaborate) quanto manipolazioni (più o meno fantasiose) della realtà che viene così adeguata a certe aspettative del futuro. Era per questa caratteristica che ogni partito che voleva essere degno di questo nome si dotava di “intellettuali” in grado di elaborare in continuazione le proprie ideologie  e di strumenti in cui questo potesse avvenire (giornali e riviste, ma anche qualche libro con annessa casa editrice). Disporre di una propria “cultura” con cui distinguersi dagli altri era un tratto distintivo di cui si riteneva di non poter fare a meno.

Questo quadro si è da tempo modificato, ma sino a qualche decennio fa ha cercato di sopravvivere. Gli studiosi di politica avevano spiegato la trasformazione in corso parlando di una “americanizzazione” dei partiti europei: un fenomeno a cui si pensava che in Italia si stesse resistendo, sebbene ora le difese abbiano ceduto anche da noi. Il modello americano del partito consisteva nel suo essere una “macchina politica”, cioè una organizzazione strumentale che serviva soltanto a far transitare esponenti delle elite sociali in ruoli politici di rilievo. Esistevano certo antiche bandiere e vaghi riferimenti ideologici, ma questi erano per così dire dei venerabili residui del passato che avevano perduto capacità performante. La “macchina”, che ovviamente era poi al servizio di un certo sistema di potere, si occupava non di formare militanti, di allevare nel suo seno classi dirigenti da far maturare attraverso un certo “cursus honorum”, ma semplicemente di trovare personalità all’interno della società civile e di fornire a questi gli strumenti per vincere le competizioni elettorali.

Siamo davanti ad un fenomeno che sta sempre più interessando anche l’Italia, sebbene da noi prevalga ancora una certa sopravvivenza del sistema di militanza, o per meglio dire della filiera “tribale”. In nessun partito attuale ci sono più le tradizionali filiere di formazione e selezione del personale politico, quelle che partivano tipicamente dalle loro “organizzazioni giovanili” (che magari, come nel caso della DC, potevano essere state allocate fino ad un certo periodo presso le organizzazioni giovanili della Chiesa cattolica). Chi vuol fare politica cerca di entrare avendo già suoi percorsi di formazione e di farsi sponsorizzare dal partito per l’avvio di un suo percorso nei luoghi di potere. Può così accadere che alcuni percorrano vie lunghe che li portano da ruoli minori a ruoli più significativi, ma molti possono arrivare direttamente a posizioni apicali.

Tutto avviene in formazioni che non hanno ormai più luoghi e percorsi per la formazione di una qualche forma di ideologia politica o anche semplicemente di programma politico di respiro. Per ragioni quasi sentimentali si mantengono vecchie formule di riferimento: destra, sinistra, liberalismo, socialismo, radicalismo, ecc., ma non ci sono strumenti per declinarle veramente, per affinarle, per renderle argomento di discussione e di confronto. Ovviamente la loro riduzione ad epiteti per caratterizzare il “noi” (buoni) contro “gli altri” (cattivi) è una banalizzazione di strutture di identificazione comunitaria che in passato avevano ben altri contenuti.

La crisi della “forma partito” ha così lasciato un vuoto preoccupante come strumento di gestione della comunità politica. Non è semplicemente questione di una “professionalizzazione” della politica, che è sempre esistita, è che si tratta della professionalizzazione di un mestiere che vive la politica come un accessorio di significato non primario.

 

 

 

 

* Studioso di storia contemporanea