L’eterno problema delle coalizioni
Una volta si pensava che fosse una questione solo italiana, almeno fra gli stati più rilevanti, perché Gran Bretagna, USA, la stessa Repubblica Federale Tedesca fino agli anni Ottanta avevano sistemi sostanzialmente bipolari. La Francia aveva ottenuto quel risultato col semipresidenzialismo. Perciò chi vinceva le elezioni non doveva misurarsi più di tanto con coalizioni di partito, al massimo con fibrillazioni interne che però venivano contenute dal prevalere di un partito chiave.
In Italia non è mai stato così. Anche quando la DC aveva percentuali rilevanti intorno al 35% il suo obbligo a fare coalizioni la metteva sotto il ricatto dei suoi alleati, i quali poi abilmente giocavano sulle lotte interne fra le sue correnti per metterne in crisi il ruolo centrale. La tradizione, se vogliamo chiamarla così, non si è mai interrotta. Dopo il crollo dei partiti storici della prima repubblica abbiamo avuto coalizioni di vario tipo, ma sempre sottoposte al problema di dover tenere insieme componenti non esattamente fraterne nei loro rapporti reciproci. Così è stato per le formazioni di centrodestra federate da Berlusconi, peggio ancora per quelle di centrosinistra federate da Romano Prodi. Non parliamo delle coalizioni che non avevano alla testa personaggi di quel calibro.
La situazione si ripropone oggi con la conseguenza di indebolire la capacità di governo del sistema e il ruolo dell’Italia a livello internazionale. Nonostante le illusioni di arrivare almeno ad un bipolarismo per “campi” più o meno larghi, la realtà rimane quella di un paese politicamente molto frammentato e ciò perché siamo poi una nazione fortemente corporativa, sempre meno disponibile a riconoscersi in un comune sentire che possa superare la faziosità delle diverse appartenenze.
Il destracentro attualmente al potere è tutto meno che una coalizione compatta, a dispetto di continue dichiarazioni di fedeltà comune. Innanzitutto perché non ha alcun comune sentire che ne cementi le componenti militanti. Forza Italia è un partito d’ordine sostanzialmente moderato che rappresentava il disegno di riconquista della leadership politico-economica da parte delle forze che erano state emarginate dal prevalere delle due opposte filiere dei democristiani e dei comunisti. La Lega nasce dalle pulsioni separatiste del Nord che riteneva di essere frenato negli anni del grande sviluppo dalla palla al piede dell’arretratezza meridionale, ma tramontata quell’epoca si è rapidamente trasformata in un partito populista, con forti venature demagogiche in difesa dello status quo contro le trasformazioni in corso. Fratelli d’Italia è un ircocervo difficile da schematizzare. I suoi quadri sono l’evoluzione della vecchia tradizione missina del “polo escluso”, la quale peraltro sopravvive solo diventando un folklorismo retrò senza radici. Il suo elettorato è fatto per lo più di delusi dall’attuale quadro politico che pensano di trovare una via d’uscita alla crisi di sistema affidandosi a chi si vanta di non avere avuto legami con quella.
Si presenta così la strana novità di una leader, Giorgia Meloni, che pur provenendo dal retroterra dei quadri è abbastanza giovane per provare a gettarsi alle spalle almeno parzialmente quel modo di pensare e al tempo stesso per fiutare che la domanda del suo nuovo elettorato non vuole ritorni al passato, ma una gestione lenta e senza scosse del passaggio ai tempi nuovi. Sarebbe l’identikit perfetto del classico partito conservatore, ma non può puntare su di esso perché i suoi concorrenti ai lati, Lega e FI, non sono disposti a riconoscerle la leadership e dunque la lavorano ai fianchi puntando sulle spaccature interne al suo partito, FdI, fra quadri culturalmente incapaci di uscire dalle liturgie del vecchi polo escluso e quadri che vorrebbero affrettare la transizione nel nuovo campo del conservatorismo, ben più remunerativo sia a livello italiano, sia a livello europeo.
La maledizione della coalizione si ripete tale e quale a sinistra. Il PDS-DS-PD ha perso la capacità di essere il perno che doveva riorganizzare le classi di governo spaesate dal crollo della prima repubblica unendo le filiere del migliore PCI e quelle della migliore DC (con qualche limitato innesto da altre filiere). La ragione piuttosto semplice era che in entrambe c’era molto professionismo politico di modesta qualità e che per questo non si sarebbe fatto spazio all’emergere di un nuovo leader, che era sostanzialmente costretto a pescare buona parte dei suoi quadri nelle sedimentazioni di quelle componenti delle burocrazie dei vecchi partiti. Tramontata rapidamente la fase di Prodi, bruciata per insipienza del leader la rottamazione di Renzi, durata lo spazio di un mattino l’utopia di Veltroni, quel partito è finito nel gorgo del declino di ogni sinistra che non si accredita credibilmente per reale capacità di governo: la riscoperta e riproposizione banalizzante del radicalismo nelle sue due versioni, quello dell’esasperazione sia di presunti diritti individuali sia di messianismi di vario tipo (egualitari, ambientalisti, globalizzanti).
Anche in questo caso l’indecisione ha lasciato spazio al sorgere della versione demagogico-populista di quanto si era predicato bene e razzolato piuttosto male. Grillismo e Cinque Stelle sono l’incarnazione di questa antitesi all’involuzione della sinistra tradizionale. Poi naturalmente la forza delle strutture si è mangiata quel tanto di ingenuo entusiasmo che poteva esserci in queste tendenze, perché è diventato evidente che con quelle impostazioni si poteva far carriera, ma a patto di mantenere la proclamazione di sé stessi come alternativa alla sinistra, cui al massimo si poteva concedere di venire a Canossa umiliandosi fuori delle mura dei loro castelli.
La competizione fra queste due componenti del lato sinistro del bipolarismo nostrano è strutturale e difficilmente si comporrà senza che una delle due parti accetti di omogeneizzarsi all’altra. Sarà difficile anche per la presenza di piccole formazioni di contorno che hanno tutto l’interesse ad impedire che ciò accada per la semplice ragione che prosciugherebbe definitivamente l’acqua in cui navigano.
Il risultato di questo quadro è che l’Italia al momento è un paese bloccato dalle sue lotte intestine. Ciò avviene in una fase molto delicata del quadro politico ed economico internazionale, con all’orizzonte passaggi il cui esito è più che incerto (invasione russa in Ucraina, guerra Israele-Hamas, elezioni europee, elezioni americane), mentre anche la situazione italiana affronta una tornata elettorale che eccita i confronti fra e dentro le coalizioni (non solo elezioni europee, ma una valanga di elezioni amministrative). Non certo una condizione ideale coi tempi che corrono.