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27 marzo 2024
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L’eterno paese dei guelfi e dei ghibellini?

Paolo Pombeni - 16.11.2022
La politica

Difficile negare che il nostro paese attraversi una fase complicata. La percezione che se ne ha non è lineare: da un lato si susseguono gli annunci pessimistici sulle nostre condizioni (l’inflazione già sta facendo calare gli acquisti per Natale, faremo meno vacanze, molta gente non sa come arrivare a fine mese), dal lato opposto le statistiche sull’andamento della produzione non vanno male, per quel che si può percepire le persone vivono più o meno la vita di sempre. Certo ciò non significa che non ci sia una sacca di povertà crescente, che una quota significativa dei nostri concittadini non debba fare i conti con una contrazione delle loro disponibilità in termini di reddito, ma semplicemente che non essendo la situazione catastrofica ci sarebbero i margini per correggerne gli squilibri e per recuperare quel che si sta perdendo.

Cosa lo impedisce? Sicuramente un ruolo non secondario lo ha la spirale demagogica da cui le forze politiche non riescono a liberarsi. Anziché concentrarsi a studiare il modo migliore per affrontare la congiuntura pesante che abbiamo davanti (pesante anche perché non semplicissima da interpretare), più o meno tutte sono affascinate dal mito di darsi e di imporre una loro “identità”. Una volta sarebbe stato pacifico riconoscere che solo i totalitarismi hanno il problema di condizionare la politica come uno strumento per creare identità, anzi nei casi estremi c’era il mito dell’uomo nuovo, che poteva essere un sogno apocalittico di destra o di sinistra, sempre una secolarizzazione dell’aspirazione implicita in tutte le religioni di sostituire l’uomo vecchio di prima della conversione con un uomo rinato. Ovviamente nelle religioni mature questo non significa omologare tutti i convertiti con lo stampino di una medesima identità, ma esprimere il mistero di una conversione che libera in ogni uomo e in ogni donna la singolarità creatrice che si trova in ciascun individuo.

Si capisce che non è semplice, anzi che è quasi impossibile portare i raggruppamenti politici attuali ad una visione così complessa. L’identità per essi è semplicemente l’inquadramento dietro e dentro un complesso di riferimenti vaghi e molto schematici la cui utilità è per lo più quella di stabilire la cerchia del “noi” in modo non solo da lasciar fuori gli “altri”, ma da poterli considerare nemici.

Basta guardare a come è impostato il dibattito politico in questo momento per rendersene conto. Le forze che hanno raccolto la maggioranza alle recenti elezioni si stanno sempre più avvitando nella spirale del dover dimostrare che adesso si fa una “politica di destra”. Quelle che sono uscite sconfitte nella competizione delle urne devono a loro volta far vedere che si deve ribaltare il tavolo e tornare a fare una “politica di sinistra”. Di qui lo spazio sproporzionato che mantengono, in un fronte e nell’altro, populisti e demagoghi, opportunamente sostenuti da un sistema comunicativo che si è formato nei decenni per lo più come fornitore di “pretoriani” agli uni e/o agli altri.

Ciò sta letteralmente bloccando un sano confronto sui problemi che il paese ha di fronte dovendo affrontare una trasformazione epocale che non può lasciare intatti i miti in cui ci si era cullati nella fase di crisi delle grandi ideologie. Per dirla fuori dai denti, il nuovo governo di destra-centro ha il problema di superare una fase di coalizione smaldrappata, che da questo punto di vista replica quelle giallo-verdi e giallo-rosse dei governi Conte. La presidente Meloni sembra non avere la forza di imporre il silenzio nei ranghi, non solo al debordante Salvini che parla quasi sempre a sproposito e senza rispetto per le responsabilità di fronte al sistema-Italia, ma anche ad altri personaggi di vario calibro che devono buttarsi in continuazione a dire la loro, anziché lavorare a costruire consenso intorno a quanto si vorrebbe fare per rispondere alle urgenze del momento.

Non è che le cose vadano meglio fra le componenti dell’opposizione. Il problema quasi non si pone per M5S che ormai come partito di Conte è solo un populismo, se non una demagogia organizzata e di conseguenza una pseudo-identità se l’è trovata con quei mezzi. L’aspetto più preoccupante è lo sbandamento pressoché totale del PD, che finisce intrappolato sempre più in una sofistica diatriba sull’identità, diatriba impossibile perché è finito il tempo delle ideologie strutturate come filosofie dell’azione, e dunque non può costruire una identità su un sistema di pensiero che non esiste più (né si saprebbe come e chi possa produrne uno nuovo). Così al posto dell’ideologia si mette in campo un coacervo di luoghi comuni (autodefiniti “di sinistra”) e si spera che ad esso possa dare dignità e significato un qualche “messia” che i media possono incoronare tale (una donna, un giovane, un personaggio nuovo, tutto può andare bene) ed a cui dare in mano il partito (condizionandolo da parte dei vecchi capi-tribù).

“Fare politica”, cioè costruire soluzioni (realistiche, non parolaie) per rispondere alle sfide di questa fase storica che ci porterà, lo vogliamo o meno, in un mondo diverso da quello del secolo passato, sembra interessi a pochi. Eppure è in un lavoro di questo genere che si può ricostruire il tessuto che tiene insieme le comunità, quelle piccole e quelle grandi, dove il rispetto reciproco non si genera perché nel migliore dei casi si riconosce come inevitabile un astratto pluralismo delle opinioni, ma perché ognuno è interessato, vorremmo dire anche curioso, di capire come degli altri pensino di predisporre gli strumenti per risolvere le stesse difficoltà e le stesse sfide.

Se non si riesce a reimpostare la politica su questi binari saremo condannati a soccombere nella confusione di una politica ridotta a lotta di fazioni e di tribù contrapposte. Una volta si sarebbe detto condannati a tornare al paese che si divide fra guelfi e ghibellini e perde l’occasione di costruirsi come nazione. Oggi è una retorica che non si usa più, ma, cambiando e adattando quel che c’è da cambiare e da adattare, è una storia che può ancora insegnarci molto.