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04 maggio 2024
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L’esperimento greco

Francesco Lefebvre D’Ovidio * - 18.08.2015
Gianīs Varoufakīs e Alexīs Tsipras

Il recente accordo di negoziare un accordo (“agreement to agree”, dicono gli inglesi), raggiunto fra Ecofin e governo greco, per la continuazione dei trasferimenti di capitali da parte degli Stati membri verso la Grecia, è il frutto di una forte pressione esercitata dall’opinione pubblica sui ministri finanziari europei e, in particolare, sui governanti tedeschi, affinché effettuassero il “salvataggio” della Grecia anziché spingerla ad “uscire” dall’Eurosistema.

Sembra spontaneo domandarsi: da cosa nasce questa pressione?

La risposta è fornita dalla diffusa persuasione, in una parte dell’opinione pubblica e dei politici di vari paesi membri, che i principi di politica economica posti alla base del processo di integrazione europea siano errati. Tali principi vengono solitamente etichettati dai media come “neo-monetaristi” (o “neo-liberisti”) e la richiesta di osservarli, rivolta ai paesi in crisi, è qualificata come imposizione di “austerità” e di misure recessive.

Invece, questa parte dell’opinione pubblica europea sostiene principi di politica economica che vengono solitamente definiti “neo-keynesiani” e consistenti, in sostanza, nella convinzione che per aumentare il PIL sia necessario aumentare la spesa pubblica (cosiddette misure espansive di politica fiscale).

Sorvoliamo sulla correttezza di queste definizioni e sulla validità delle teorie economiche sostenute dall’una e dall’altra parte.

Il dato di fatto è che l’evoluzione del processo di integrazione è stata dominata dai principi definiti nel trattato di Maastricht, nello statuto del SEBC (Sistema europeo delle banche centrali) e in tutto l’apparato normativo sul mercato unico e sulla convergenza dei paesi in condizioni di squilibrio. Tali principi si compendiano (senza bisogno di ricorrere a concetti come “neo-monetarismo” o “neo-liberismo”, che peraltro non esistono come dottrine o come teorie economiche) nella necessità che i singoli paesi membri adeguino la propria politica fiscale a regole tali da evitare di dover incorrere in periodici riaggiustamenti che compromettano la stabilità della moneta.

L’accordo con la Grecia è basato sull’accettazione di una serie di riforme che il governo greco, il partito di maggioranza relativa Syriza e una parte dell’opinione pubblica, giudicano “recessive”. Le prime misure, subite dal Parlamento greco, sono consistite, fra l’altro, nel riconoscimento dell’indipendenza dell’istituto nazionale di statistica dal governo e in una riforma del codice di procedura civile: è arduo individuare il carattere “recessivo” di tali riforme. Beninteso, altre riforme mirano a uniformare il sistema fiscale e previdenziale greco con il resto dell’area monetaria e a imporre il contenimento del disavanzo fiscale: e sono queste ultime misure che vengono maggiormente criticate come “recessive”.

I sostenitori della necessità di concedere aiuti alla Grecia senza imporle le riforme previste dai trattati affermano che tali misure, definite di “austerità”, hanno la conseguenza di produrre effetti “recessivi” e che i principi adottati dai paesi in surplus sono errati. Pertanto, affermano, è necessario fornire alla Grecia i capitali necessari a continuare a emettere Euro, senza però imporle riforme che impedirebbero l’attuazione di politiche “espansive”.

Sembra tuttavia improbabile che i cittadini degli altri paesi dell’Eurozona vorranno continuare a lungo a sostenere il disavanzo greco. I privati, solitamente, sono favorevoli ai trasferimenti unilaterali quando sono a loro favore, ma non quando vanno in direzione contraria e non amano sentirsi dire che i loro risparmi e i loro redditi servono per esigenze di equità.

Sembra inoltre improbabile che le politiche fiscali auspicate dal governo Tsipras siano compatibili con il mercato unico, come appare da quanto accaduto negli ultimi mesi. La Grecia, infatti, ha dovuto chiudere le banche e la borsa e sospendere la libera circolazione dei capitali: in questo momento è, dunque, fuori dal mercato unico e probabilmente destinata a restarvi.

La soluzione desiderata dai critici delle politiche di “austerità”, dunque, non può limitarsi al caso della Grecia. La vera soluzione da essi auspicata, infatti, è l’adozione da parte di tutta l’Europa di politiche economiche “espansive”, basate sull’aumento della spesa pubblica e non la sua riduzione, per aumentare la domanda aggregata.

Quello che chiede, in realtà, chi preme per la continuazione dei trasferimenti di capitali alla Grecia senza l’imposizione delle riforme “recessive”, è una profonda revisione dei principi posti alla base dei trattati europei.

Ciò, del resto, risponde a una profonda convinzione insita in una parte dell’opinione pubblica europeista: favorevole all’integrazione dell’Europa ma sulla base di idee e condizioni diverse da quelle che, nel processo finora attuatosi, sono risultate prevalenti. L’integrazione non dovrebbe avvenire mediante un processo di convergenza, bensì rispettando la sovranità e le scelte individuali degli Stati membri. L’esistenza di squilibri non dovrebbe essere corretta mediante riforme nei paesi che presentano un disavanzo fiscale e nelle partite correnti della bilancia dei pagamenti, bensì anche in quelli che presentano un surplus. Secondo alcuni, ad esempio, la Germania sarebbe responsabile degli squilibri dei paesi periferici, in quanto la sua bilancia delle partite correnti è in eccessivo surplus (oltre il 6% del PIL) e dovrebbe correggere tale squilibrio. In alcuni casi, evidentemente, i paesi più efficienti dovrebbero convergere verso quelli meno efficienti, non il contrario.

Può essere che tale impostazione sia giusta; ma corrisponde a un rovesciamento di quella adottata nei trattati internazionali. Si può pensare che tale “rivoluzione copernicana” avvenga tenendo in piedi l’Unione Europea con i membri attuali e che la Germania (insieme agli altri paesi in analoghe condizioni) accetti una simile revisione? E come vorrebbero i sostenitori di questa revisione indurla a far parte di un’unione europea così modificata?

Sembra evidente che la revisione auspicata non possa portare ad altro risultato che quello dell’“Europa a due velocità”: e nell’Europa dei paesi “ritardati” non si sa chi dovrebbe fornire i capitali necessari per supplire al divario fra risparmio e investimento e fra esportazioni e importazioni.

E, per tornare al punto di partenza: quali benefici trarranno i cittadini greci, mentre si svolge il dibattito fra le politiche “recessive” o “espansive” della futura Europa? Essi, in realtà, stanno svolgendo la funzione di cavia in un esperimento sulla politica economica europea, esperimento che viene portato avanti a spese della cavia ma a beneficio di altri e più rilevanti interessi.

E mentre gli europeisti dei paesi “periferici” si esercitano nelle dispute sui massimi sistemi della politica fiscale, i cittadini greci saranno costretti a una lunga e profonda recessione, analoga a quella del 1929-33.

 

 

 

 

* Professore Ordinario di Storia delle relazioni internazionali alla “Sapienza” Università di Roma