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L’eclissi della politica

Paolo Pombeni - 21.05.2015
Stefano Fassina, Giuseppe Civati e Luca Pastorino

Ad osservare l’andamento attuale dello scontro politico c’è poco da rallegrarsi: sembra infatti che qualsiasi principio di razionalità stia andando a farsi benedire. I cosiddetti “realisti” ci invitano a tenere conto del fatto che siamo in piena campagna elettorale ed alla vigilia di elezioni che sembrano assumere maggior significato ogni giorno che passa. Dovremmo dunque ritenere normale che tutti si permettano ogni genere di colpo basso in considerazione della rilevanza della posta in gioco.

Francamente non la pensiamo sia così. Condurre una opposizione al governo scatenata sulla base di richiami alla più volgare demagogia non è buona politica, anzi non è politica proprio per nulla. Sostenere per esempio che il governo deve ridare ai pensionati tutto quello che disinvoltamente viene definito “maltolto” è irresponsabile, perché qualsiasi persona assennata sa che questo porterebbe ad un baratro finanziario in cui quello che oggi viene elargito, domani sarebbe divorato dalla catastrofe economica che ne deriverebbe. Dire che Alfano è un ministro fallimentare perché si è scoperto che un clandestino approdato via barconi tempo fa in seguito si è unito ai terroristi di Tunisi è pura speculazione. A prescindere che la polizia lo ha individuato ed arrestato, non si vede come il ministro potesse evitare un incidente di quel tipo.

Non parliamo degli attacchi alla riforma della scuola, che sono zeppi di luoghi comuni e vuoti di qualsiasi seria proposta alternativa. Ascoltare dalla Gruber il segretario della CGIL-Scuola che sfornava una banalità dietro l’altra è stato realmente uno choc: non si pensava che il sindacato di Di Vittorio, Lama e Trentin si fosse ridotto così male.

Non parliamo delle vicende interne al PD. Lasciamo perdere i Fassina e i Civati, ma la rabbia con cui la minoranza interna persegue la delegittimazione del proprio segretario sarebbe davvero degna di miglior causa. Stiamo arrivando al punto che in Liguria si lavora per una alternativa di sinistra correndo dietro a Cofferati, il cui vanto maggiore è essere vergognosamente fuggito da Bologna per evitare la prova elettorale di un secondo mandato da sindaco (il cui successo era tutt’altro che garantito) per farsi comodamente eleggere parlamentare europeo. Anche qui dove sia la proposta politica, a parte l’aria fritta sulla difesa di una presunta collocazione “veramente” a sinistra, non si riesce a capire.

Non siamo tanto ingenui da non avere capito a cosa puntino tutti: a far certificare dalle urne una certa quota di rappresentanza per giocarsela poi nell’ultima fase di questa legislatura, la cui fine anticipata sempre meno probabile. La centralità di Renzi non sembra in questo momento sfidabile, quel che sembra possibile è condizionarne più o meno pesantemente l’azione futura.

Tutti cercano dunque di raggiungere, a qualsiasi prezzo, il massimo risultato elettorale ottenibile, senza preoccuparsi di due danni collaterali molto pericolosi. Il primo è la crescente lontananza di quote molto significative di elettorato da una politica votata alla rissa, che, come è ovvio, interessa solo coloro che vi partecipano e che amano menar le mani (si spera metaforicamente). L’astensionismo non sembra preoccupare nessuno, perché tutti temono invece il ritorno in campo di elettori che non sono evidentemente più condizionabili con gli slogan e i richiami all’appartenenza.

Il secondo danno è costringere il governo alla politica del braccio di ferro continuo. Questo non fa bene neppure al premier, che così è portato a rinchiudersi nella sua cittadella ed a fidarsi solo dei propri stretti collaboratori, che magari possono essere anche semplicemente quelli che gli è capitato occasionalmente di imbarcare nelle prime fasi della sua avventura.

A dire il vero vi è un terzo danno, che viene sottovalutato. Tra i “rimedi estremi” per raccogliere il massimo consenso possibile c’è anche una resa ai cacicchi locali dei vari partiti e alle lobby che questi possono mobilitare. Renzi è poco attento a questo aspetto del controllo del partito sul territorio, perché è un leader “televisivo” (dunque a platea nazionale indifferenziata), ma dovrà prima o poi accorgersi che di solo consenso comunicativo non è mai vissuto nessuno. Ci sono illustri precedenti storici al proposito.

Si potrebbe finire dicendo che, pazienza, passerà la tempesta elettorale e poi si riprenderà a fare politica. Se, come è possibile, le urne cospargeranno il campo di macerie non sarà affatto facile. Se ci sarà, come spera Renzi, una vittoria per lui significativa, perché dopo tante cattiverie e colpi bassi non sarà semplice superare la tendenza a non fare prigionieri e in ogni caso perché essa rafforzerà i circoli interni dell’attuale potere, che invece avrebbe un gran bisogno di aprirsi a nuovi gruppi dirigenti della società. Se poi le urne non daranno successo al governo e indicheranno invece una frammentazione che seppellisce definitivamente il vecchio quadro politico (e magari segna il definitivo successo dei Cinque Stelle: cosa possibile), perché ci aspetteranno anni di continue turbolenze alla ricerca della ricostruzione di un equilibrio politico in gran parte nuovo e imprevedibile.

Sarebbe meglio raffreddare gli animi e pensare che, con tutte le tensioni internazionali alle porte e con la crisi della UE che non accenna a risolversi, più “politica” e meno “demagogia” sarebbe nell’interesse di tutti, classe politica compresa.