Ultimo Aggiornamento:
07 dicembre 2024
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La diatriba infinita sulle riforme costituzionali

Paolo Pombeni - 27.09.2023
Giorgio Napolitano

Crediamo non ci sarebbe modo migliore di ricordare la straordinaria personalità di Giorgio Napolitano di quello di riprendere con serietà il tema delle riforme costituzionali, cui dedicò grande attenzione intellettuale (basta rileggersi le antologie dei suoi discorsi) e intenso impegno quale inquilino del Quirinale (ricordiamo lo sfortunato tentativo di promuovere un lavoro comune di esperti nella commissione guidata dal ministro Gaetano Quagliariello).

Potrebbe sembrare che anche il nuovo governo di Giorgia Meloni abbia ripreso l’interesse ad intervenire in questo delicato campo oggetto di discussioni e scontri fin dagli anni immediatamente successivi alla fine del lavoro dei Costituenti. Temiamo non sia così e semplicemente perché anche questo esecutivo, come quelli che lo hanno preceduto su questi terreni, non riesce ad afferrare il bandolo della matassa e cede ad una visione manipolatoria della revisione costituzionale.

Per dirla in termini semplici: si è lavorato e ancora si lavora non per costruire un sistema che stia in piedi a prescindere dagli interessi più o meno nobili della classe politica che di volta in volta vuol mettere in atto le riforme, ma per raggiungere attraverso qualche marchingegno l’obiettivo di consolidare l’equilibrio di potere che crede di avere in mano le regole del gioco.

Senza avventurarci in una disamina completa delle debolezze della seconda parte della nostra Carta fondamentale (la prima è ancora più che viva e vitale così com’è, basta sforzarsi di rileggerla contemperando valori che non tramontano con sensibilità oggetto di inevitabile evoluzione dei tempi) ci permettiamo di sottolineare qualche punto mal impostato nelle attuali contingenze.

Il primo riguarda il tema spinoso del rapporto fra un sistema di decisioni ideato come centralistico e una evoluzione che lo ha frammentato con la devoluzione di molti compiti e poteri a livello regionale. È a districare il pasticcio di un para-federalismo immaginato e di un centralismo decisionale che manca delle capacità di direzione che si dovrebbe lavorare. Questo postula una cosa che in sé non pare cervellotica: creare una sede, su base rappresentativa perché questo è lo spirito della Carta, dove si compongano le capacità di dialettica e di governo fra il decentramento dei poteri nelle regioni e il necessario indirizzo di coordinamento che deve promuovere l’interesse nazionale. Si dovrebbe partire da un intervento deciso sul nostro bicameralismo, cosa che nessuno vuol veramente fare nel timore di toccare rendite di posizione (elettorale e non solo) di tutti i partiti.

Invece di applicarsi su questo fronte si perde tempo a discettare di autonomie differenziate, pensate solo per far acquisire posizioni di distribuzione di risorse in un maggior numero di campi (e sorvoliamo sul fatto che così si contribuirà sia ad indebolire il rapporto dei cittadini con la coscienza nazionale, sia ad acuire molte diseguaglianze che affliggono la nostra geografia politica). Si tratta non di un pensiero costituzionale, ma di pregiudizi e di fantasiose rappresentazioni della realtà a cui si dà spazio per accontentare un partito politico. Cosa accade quando si accetta questo modo di agire lo si dovrebbe avere visto coi guai che ha procurato l’aver ceduto ai ghiribizzi dei Cinque Stelle per placarne la sete di riforme immaginate che non sapevano fare.

Il secondo intervento di cui oggi si discute è il cosiddetto premierato. Anche qui si parte da un problema reale, molto dibattuto non solo nell’Italia repubblicana: come evitare che l’azione di governo del paese sia totalmente in balia delle dinamiche parlamentari che non sempre sono virtuose come dovrebbero essere. L’idea di rafforzare la posizione di chi guida il governo dandogli una legittimazione che non sia nelle mani dei giochi al massacro possibili in parlamento, specie quando la qualità della classe politica non è delle migliori, è razionale. Diventa pericolosa quando per ottenere quel risultato si propone la via della “incoronazione” del premier attraverso una designazione popolare diretta della persona. Un minimo di competenza storica dovrebbe insegnare che non sempre la voce del popolo è la voce di Dio, anzi risponde spesso a suggestioni di un momento che possono poi dissolversi. Inoltre chi viene designato oggi perché giudicato una buona scelta può rivelarsi domani una promessa mancata, per cui non è saggio mettersi nella condizione di non poterlo sostituire se non con atti molto drammatici che in politica non portano mai bene.

Ci sono gli strumenti per immaginare un rafforzamento deciso dei poteri di chi guida il governo senza cadere nella dinamica della “incoronazione” popolare di qualcuno, lasciando spazio ad una dialettica parlamentare in cui i giochetti trasformistici e assimilabili vengano resi molto poco praticabili. Peccato che ai partiti oggi interessi o conquistare lo strumento per cui si può essere incoronati dall’elettorato e resi così di fatto indiscutibili o tenersi la situazione attuale ricca di confusione che si pensa permetta il sistema dei veti e dei ricatti, nonché il rovesciamento al buio degli esiti delle urne.

Per tutelare lo status quo si invoca la necessità di preservare il ruolo di timoniere ed arbitro del presidente della repubblica. Peccato che quasi nessuno si ponga un banale interrogativo: ma siamo sicuri che un presidente della Repubblica eletto come avviene oggi dal parlamento sarà sempre una personalità di grande equilibrio e capacità come è accaduto nell’ultimo quarto di secolo? Non sarebbe meglio formalizzare maggiormente i poteri del Capo dello Stato, ma soprattutto eleggerlo con una modalità che lo investa davvero della rappresentanza della nazione nel suo complesso al di sopra dei contingenti equilibri ed interessi dei partiti presenti in parlamento al momento della sua elezione?

Ragionare con serenità su questi e su altri temi ci farebbe fare un notevole passo avanti e ci porterebbe forse a concludere quel cantiere infinito e poco produttivo che sono stati finora i marchingegni inventati da una politica che in definitiva aveva più paura che si riuscisse nell’opera di riforma che non fiducia di essere una classe dirigente capace di gestire davvero un potere costituente.