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27 aprile 2024
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La (buona) politica che manca al Paese

Carlo Marsonet * - 04.09.2019
Salvini e Conte

È stato un agosto difficile. All’umidità che ha reso il caldo in taluni frangenti davvero insopportabile, si è aggiunta, infatti, la crisi politica italiana che ha tagliato il respiro in più momenti. La panoramica circostante, intendiamoci, non è maggiormente edificante. Il problema di un abbrutimento morale, di una deriva malsana che attanaglia la politica e la società è piuttosto evidente, e abbraccia l’Occidente tutto. Basti considerare i richiami che sembrano sedurre molteplici forze politiche, in Italia e fuori. Tendenze sideralmente distanti dalla tradizione liberaldemocratica godono di una sempre più pronunciata simpatia. Si dirà, nel gioco politico costituzional-pluralistico lo scontro tra idee e visioni del mondo contrastanti è parte essenziale del sano funzionamento democratico, del dibattitto conflittuale stante alla base delle nostre società politiche. Democrazie mature, infatti, non possono che abbeverarsi, ovvero trarre linfa vitale da una dialettica politica anche accesa tra i contendenti. Ciò che conta, nondimeno, è che il carattere agonistico venga arginato entro limiti ben definiti, ovvero non faccia esplodere le passioni soggiacenti, come da miglior insegnamento aroniano.

Tralasciando la pure teoria, anche se essa è inestricabilmente legata alla realtà concreta, si osserva una caratteristica, un elemento distintivo e profondo pressoché ubiquo, cioè a dire riscontrabile in tutte le forze politiche. Per semplicità, e per capirci, possiamo chiamarlo statalismo. In ogni dichiarazione rilasciata da una qualunque delle forze politiche con i più alti consensi non vi è occasione in cui non si parli di equità, giustizia, investimenti (statali), sussidi, incentivi e così via. Se si vuole, le parole – e dunque i concetti che esse racchiudono – possono essere agevolmente sostituite da un unico vocabolo: diritti. L’idea che lo stato possa in qualche modo essere la leva provvidenziale per risollevare le sorti di una nazione, in altri termini, si abbarbica sempre più. Ciò è il frutto più riuscito, l’esito più maturo allevato dalla democrazia, da intendersi in questo caso non come procedura o metodo per scegliere i governanti, bensì come corrente filosofica che vede nell’eguagliamento delle condizioni, materiali e morali, il sommo e più nobile fine.

Ebbene, lo zeitgeist imperante vede ormai al centro della scena l’individuo democratico incapace di concepire i diritti con i propri necessari compagni di viaggio, i doveri. Basterebbe, in realtà, prendere in mano un volumetto di Giuseppe Mazzini, intitolato paradigmaticamente I doveri dell’uomo. Sfogliandolo, si può leggere il seguente, emblematico passo: «non conquisterete l’esercizio del vostro diritto se non meritandolo, col sagrificio, coll’attività, coll’amore. Creando in nome d’un dovere compito o da compirsi, otterrete: cercando in nome dell’egoismo, in nome di non so quale diritto al benessere che gli uomini del materialismo v’insegnano, non otterrete se non trionfi di un’ora, seguiti da delusioni tremende».  Pur egli riferendosi agli operai italiani, se noi ampliamo il bacino degli uditori in particolare al magma narcisistico imperante, servendo cioè da ammonimento a tutti gli abitanti delle democrazie, il discorso non cambia; anzi, è oltremodo pregnante.

Ma c’è di più. Infatti, un discorso imperniato sui diritti, tralascia sempre e comunque la libertà. Più diritti, in definitiva, vanno ad erodere le libertà di cui gli individui possono beneficiare. Iperinflazione legislativa e interventismo in ambito economico – gemelli siamesi che possono essere ben letti tra le righe nelle dichiarazioni delle forze politiche più di successo – non fanno che inaridire la possibilità per gli individui di fare piani, di progettare dove, come e cosa investire; in definitiva, prosciugano le possibilità di disporre responsabilmente e in modo adulto della propria vita. Perché questo comporta l’assistenzialismo redistributivo: la mancata introiezione del principio di responsabilità.

Una politica degna di questo nome non può esimersi dal porre al centro del proprio lessico parole (e concetti) come costo-opportunità, risparmio, responsabilità (di spesa). Senza questi ineludibili presupposti, e sposando, al contrario, tesi dal sapore socialisteggiante – diritti universali, welfare senza fine, giustizia sociale –, la democrazia non può che perire sotto i colpi inferti dal credo statalista. Non esistono panacee e rimedi indolori per risolvere situazioni poco piacevoli. L’unico modo per evitare di cadere preda di facili e suadenti ideologismi è guardare in faccia la realtà: più stato significa meno libertà individuale, più sprechi, nonché maggior potere dato alle burocrazie (si veda sul punto un classico di Bertrand de Jouvenel, L’etica della redistribuzione, tradotto da Liberilibri di Macerata).

«L’esperienza di tanti secoli, in armonia con la natura e con la dignità dell’uomo, ci insegna che, per una condotta di vita ragionevole e responsabile non si deve vivere alla giornata, che bisogna saper frenare l’impazienza e l’avidità del godimento; tener presente il domani; non fare mai il passo più lungo della gamba; prendere le dovute precauzioni per l’avvenire e prepararsi ad affrontare le vicissitudini della vita; che bisogna equilibrare le spese e i guadagni», scriveva Wilhelm Röpke nel suo testamento spirituale Al di là dell’offerta e della domanda (tradotto in italiano da Rubbettino). Parole sacrosante e banali, si potrà pensare. Ancor di più, di semplice buon senso, dato che va tanto di moda quest’espressione. Esatto…ma chi le ascolta?

 

 

 

 

* Dottorando in Scienze politiche presso la Luiss Guido Carlo di Roma.