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Pessima maestra televisione. L’attentato a “Charlie Hebdo” e l’incapacità dei media italiani di raccontare le crisi

Novello Monelli * - 13.01.2015
Rainews24 - Charlie Hebdo

Gli attacchi terroristici di Parigi hanno messo in rilievo una volta di più la strutturale difficoltà dei media italiani di raccontare le crisi.


La strage alla sede di Charlie Hebdo la mattina del 7 gennaio, l’omicidio di Montrouge il giorno seguente, l’inseguimento dei terroristi e la sua conclusione, con il sequestro e gli assedi a Porte de Vincennes e a Dammartin-en-Goële, sono stati seguiti in modo incerto e talora goffo in Italia. La prima impressione è che la gravità di ciò che stava accadendo non sia stata subito percepita. Non si capirebbe altrimenti per quale motivo, quando la notizia del più grave attentato in Francia degli ultimi anni stava già rimbalzando sui siti di informazione da più di un’ora, la maggior parte dei telegiornali nazionali abbia continuato a riservare uno spazio sproporzionato e grottesco ai funerali di un cantante. L’incapacità di adattare rapidamente la programmazione all’incalzare degli eventi è uno dei problemi evidenziati dai fatti parigini. Che sia da imputare a scarsa sensibilità, ad un evidente deficit di prospettiva o alla letargia culturale derivante da alcuni decenni di imperante provincialismo informativo (è più simpatico parlare di soubrette e gossip che di omicidi e attacchi alla libertà di stampa), ci sono pochi dubbi comunque sul fatto che gli organi di informazione italiani, e in particolare i canali televisivi, abbiano reagito agli attacchi in Francia in modo improvvisato. Non si tratterebbe di un problema grave in un altro paese europeo, dove la capacità di informarsi della maggior parte della popolazione non dipende più dalle news televisive (cui si riserva il ruolo di commento e approfondimento) ma dal costante aggiornamento dei siti internet e dai live dei quotidiani online. In Italia, tuttavia, un conclamato analfabetismo informatico spinge buona parte del pubblico ad abbeverarsi ancora alle cronache dei telegiornali, il che conferisce ai canali all-news come Rainews24 (l’unico in chiaro) un ruolo di straordinaria responsabilità. 

 

Pressapochismo e poche notizie

 

Un buon esempio di come questa responsabilità non sia commisurata alle attuali risorse dell’informazione televisiva nazionale viene proprio dagli “speciali” sull’assalto a Charlie Hebdo: la radiotelevisione pubblica ha dimostrato quantomeno di non avere una grande offerta di competenze. Tra i commentatori invitati o intervistati per fornire una lettura più approfondita degli eventi, si sono visti ospiti abituali come Alessandro Politi, Francesco Strazzari e Germano Dottori, vale a dire un analista strategico, uno studioso del nuovo terrorismo specializzato nell’area balcanica, e un esperto di equilibri NATO e degli scenari post-intervento nelle aree di peace-keeping. Nessuno si è preoccupato del fatto che spiegare una missione di peace enforcement in Asia o un evento criminale germinato nel contesto dell’immigrazione e delle periferie francesi non sono esattamente la medesima faccenda e richiede competenze differenti (un sociologo e un esperto di politica francese sarebbero stati graditi)? D’altra parte, quando la parola è passata ai giornalisti, la sensazione di una diffusa impreparazione è stata persino imbarazzante. A netto di un’inviata che è riuscita a definire “Guardia Nazionale” la Gendarmerie e “Madeleine” la statua della Marianne a place de la République, la conduzione delle lunghe dirette da Parigi ha rivelato soprattutto una grande ansia di visibilità (a fronte di una scarsità di cose da dire): evidentemente, lo stile dell’anchorwoman nostrana predilige l’esibizione di sé alla regola aurea della notizia data con la minima interferenza del cronista.

 

Lo scarso peso della competenza

 

Il problema è che la competenza e la capacità di fornire un’analisi lucida sono diventati problemi secondari nell’informazione italiana. Commenti e approfondimenti vengono spesso appaltati con criteri inspiegabili, o attraverso il metodo tradizionale dell’amico che conosce un amico (e poco importa se l’ospite si rivela un improvvido ignorante). E’ una regola dominante a cui pochi si sottraggono. Nel febbraio del 2014, quando la crisi di Kiev fece balenare fantasmi di guerra calda alle frontiere dell’Unione, a “Otto e Mezzo” (un programma di approfondimento di indiscutibile serietà) venne invitata Natalia Karfut. Cioè una teologa che, come principale titolo per partecipare ad una discussione sui conflitti in politica internazionale, vanta il fatto di essere di Leopoli e che, incidentalmente, rilasciò dichiarazioni di un candore agghiacciante sull’opportunità di cacciare dal paese i russofoni. C’è da chiedersi se non c’era proprio nessuno studioso di Europa orientale da interrogare per ottenere qualche parere vagamente più lucido delle chiacchiere sulle secolari ragioni storiche della grande nazione ucraina.

Sarebbe bello poter pensare che si tratti sempre di casi isolati, ma la verità è che la televisione si dimostra solo saltuariamente in grado di valorizzare le competenze intellettuali che il mondo accademico mette a disposizione. Sarà per fretta, sarà per pigrizia, ma nei salotti buoni del’'informazione trovare uno specialista competente che sa di cosa sta discutendo è sempre una sorpresa rara. E’ più facile imbattersi in Vittorio Feltri che pontifica sul Quarto Reich parlando di frullatori.

 

 

 

 

* Professore a contratto Università di Padova