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Kos, i profughi e i confini dell’Europa

Giovanni Bernardini - 25.08.2015
Kos

“Una delle migliori destinazioni in Grecia, con siti archeologici, spiagge sabbiose e divertimento per tutti i gusti”. Per una volta la formula di prammatica dei depliant non colpisce lontano dal bersaglio: perché l’isola di Kos, nel Dodecaneso, si è affermata da tempo come l’ennesima, “normale” meraviglia estiva che la Grecia offre a prezzi tutto sommato abbordabili ai turisti europei e non solo. Quest’anno però l’isola è assurta agli onori della cronaca per un primato degli arrivi ben più difficile rispetto a quello consueto dei charter e dei traghetti da occidente, carichi di visitatori e dei loro risparmi per le vacanze. Perché un fazzoletto di mare, o un “braccio” a voler essere generosi, separa a nordest le coste di Kos da quelle della Turchia. Quest’ultima, dati alla mano, sta sopportando il maggior peso della disperata fuga per la sopravvivenza dal disastro siriano: ormai quasi due milioni d’individui, secondo le stime sicuramente al ribasso dell’UNHCR, che in percentuale considerevole guardano come approdo finale della loro odissea all’ingresso nell’Unione Europea. Di cui Kos, volente o nolente, si è scoperta porta d’ingresso e frontiera critica al pari di Lampedusa, Malta, Melilla, Orestiada. Rispetto ad altre destinazioni, però, l’isola greca ha mostrato nelle ultime settimane un’impreparazione comprensibile ma non meno preoccupante di fronte all’ingente flusso di rifugiati. In un paese la cui amministrazione pubblica ha già subito colpi gravi dalla crisi e dall’austerity, l’arrivo di circa 7.000 migranti (su 30.000 residenti nell’isola) non rappresenta soltanto un problema di ordine pubblico come i media insistono a ripetere, ma anche una sfida improba per tutte le procedure legali e amministrative che dovrebbero accompagnare l’identificazione e il ricollocamento dignitoso dei nuovi arrivati. Al punto che la Vicepresidente del parlamento tedesco Claudia Roth, in visita all’isola solo pochi giorni fa, ha confessato di aver trovato un “inferno in terra” che rischia di sfuggire definitivamente di mano alle già sopraffatte autorità locali; questo nonostante l’atteggiamento finora più che encomiabile della popolazione che, secondo i resoconti, si sta prodigando per alleviare la situazione dei nuovi arrivati e al contempo salvare la stagione turistica da cui dipende.

 

Non è la prima volta che i cinque chilometri di mare tra Kos e la Turchia fanno la differenza tra la vita e la morte, tra la speranza di un futuro e la disperazione più nera. In direzione contraria, però, come forse pochi ricorderanno. Chi avrà voglia e pazienza di abbandonare le spiagge e volgersi all’entroterra, scoprirà tracce di una battaglia sanguinosa, combattuta più di settant’anni fa in spregio anche delle regole dei codici militari e delle convenzioni internazionali di guerra, spesso già poco comprensibili in ogni tempo. Kos, italianizzata Coo, era una delle “Isole italiane dell’Egeo” sin dalla Pace di Losanna del 1912, che aveva posto fine alla guerra con la Turchia. In piena Seconda Guerra mondiale, l’isola era controllata in modo precario da truppe italiane fedeli al re, cui si aggiunsero quelle britanniche dopo l’8 settembre 1943. Un mese dopo esse furono attaccate da soverchianti forze tedesche, decise a prendere il controllo dell’isola in ragione della sua importanza strategica. Ventiquattro ore dopo i nazisti avevano raggiunto l’obiettivo, disarmando e facendo prigionieri i nemici che in larga parte si arresero dopo brevi e disperati combattimenti. Se però gli inglesi furono sottoposti a un trattamento “da prigionieri”, gli italiani, e in particolar modo gli ufficiali, furono processati in modo sommario e giudicati “traditori” della causa comune. Circa un centinaio di loro (pari a due terzi, ma la cifra non è ancora oggi definitiva) furono fucilati in fretta e in gran segreto; altri fortunati, e con loro molti soldati semplici, trovarono un riparo di fortuna sull’isola in attesa di affrontare il mare, con imbarcazioni di fortuna o senza, alla disperata ricerca dell’altra sponda e della salvezza. Anche in quel caso fondamentale fu la scelta della popolazione locale di venire in soccorso con viveri e quant’altro di chi si nascose per settimane (e tra questi, per quel che conta, anche il nonno di chi scrive). Non pochi tra gli abitanti di Kos pagarono in prima persona per aver fornito mezzi di fortuna ai militari italiani che tentavano la traversata per evitare un destino di deportazione e schiavitù, o peggio di fucilazione.

 

La crisi dell’Europa odierna, per fortuna, è ben lontana dall’assomigliare anche lontanamente a quella vissuta negli anni in questione, e di cui gli orrori dell’Egeo hanno costituito soltanto un episodio “minore”. Eppure, prima di sparire con la consueta fretta dalla precaria mappa dell’attenzione mediatica, è bene che Kos torni a ricordare con urgenza come le guerre producano sempre spostamenti di popolazioni, che poi sono uomini e donne in cerca non soltanto della proverbiale “vita migliore”, ma in casi come questi di una semplice opportunità di sopravvivenza che è pregiudicata nel loro luogo di origine. Prima ancora di qualunque considerazione politica o logistica, queste sono le ragioni da tener presente, che dovrebbero dissuadere dal dare ascolto alle retoriche incendiarie e al becero razzismo strumentale di cui il dibattito politico si è riempito in modo preoccupante. Perché ancora una volta nella sua storia secolare, la definizione dei confini dell’Europa e della sua stessa identità non si pone tanto in termini puramente geografici, ma di scelta ineludibile tra barbarie e civiltà.