Iraq: una ferita aperta. Quando la guerra diventa soggetto dell'arte Giles Duley per Emergency.
"La fotografia perde significato se non faccio tutto il possibile affinché il mondo veda quello che i miei occhi hanno visto. Ecco qual è il mio dovere". Con queste parole il fotografo britannico Giles Duley ci invita a scoprire il suo ultimo lavoro come reporter di guerra. Iraq: una ferita aperta è una mostra fotografica che sta occupando in questi giorni gli spazi di Casa Emergency, una collezione di scatti che documentano l'orrore e la devastazione del conflitto che ha colpito negli ultimi anni l'Iraq, nelle zone di Erbil e Mosul.
Una ventina o poco più di fotografie in bianco e nero, semplici ma potentissime, sistemate su cavalletti di compensato in una sala essenziale eppure austera, che ritraggono donne, uomini, bambini accolti nelle strutture di Emergency.
Non sempre è facile reggere lo sguardo su ciascuna immagine, eppure è tale il loro magnetismo che il percorso si finisce in fretta, tutto d'un fiato.
È questo quello che accade quando la fotografia, l'arte, diventano maestre di vita, quando diventano strumento di conoscenza, permettendoci di capire e vedere con i nostri occhi cosa succede in luoghi che troppo spesso consideriamo lontani da noi anni luce. Attraverso l'obiettivo di Giles possiamo visitare i progetti di Emergency, seguendo gli stessi passi che ha percorso a febbraio 2017, quando ha deciso di documentare quello che stava accadendo nell'ospedale di Erbil.
Per dare assistenza ai feriti in fuga da Mosul, l'associazione umanitaria italiana all'inizio dell'anno ha riaperto un ospedale che fu costruito nel 1998 a circa 77 km dalla città, per curare le vittime delle mine antiuomo. In meno di 10 mesi di attività sono state curate oltre 1400 vittime di guerra, di cui 460 bambini.
“Mosul è oggi come una scultura d’argilla interamente distrutta da mani enormi”. Così Ghaith Abdul-Ahad, giornalista del The Guardian, descrive quello che rimane della città irachena dopo che ne è stata dichiarata la liberazione dall’ISIS il 9 luglio scorso. Parole che descrivono perfettamente la sensazione che si prova di fronte al racconto muto della mostra fotografica e che pongono inevitabilmente una domanda: è possibile mescolare la bellezza di una fotografia con la tragedia del soggetto che ritrae?
In Iraq, secondo i dati di Emergency, oltre 3 milioni di persone sono in cerca di rifugio nelle aree lontane dai combattimenti e 11 milioni di persone necessitano di assistenza sanitaria. Eppure la bellezza, terribile, degli scatti di Duley non può far altro che rapirci.
Lo stesso fotografo racconta di essersi trovato per la prima volta nella sua carriera a mettere in dubbio il senso del suo lavoro: “In passato ho parlato di come, anche in queste situazioni, io abbia cercato di trovare un barlume di speranza da fotografare, come una risata o l'amore di una famiglia. Ma quello che ho vissuto a Mosul mi ha spiazzato. Ho capito che a volte un'immagine simile è impossibile da trovare.”
Un reporter di guerra nella sua vita diventa testimone di eventi di una violenza così estrema, da arrivare chiedersi: che valore può avere una fotografia?
Ebbene, è proprio attraverso un'immagine, un'opera, che abbiamo la possibilità di apprendere, di essere colpiti da qualcosa, di meraviglioso o di terrificante. Facendoci capire quello che viene descritto nelle pagine dei giornali e che un giorno si leggerà nei libri di storia, la fotografia diventa un impegno civile. Che valore può avere una fotografia?
La risposta ce la dà lo stesso Duley: “Volevo che il mondo vedesse cosa stava succedendo e che vacillasse davanti a quelle immagini, come ho fatto io”. La fotografia ci insegna. A volte anche l'orrore.
* Daria Reggente è giornalista pubblicista dal 2015 e collabora con alcune testate nei settori arte, architettura e design
di Paolo Pombeni