In ricordo di Umberto Eco
Innumerevoli sono stati in questi giorni i ricordi, le commemorazioni, le analisi della personalità e dell’eredità intellettuale di Umberto Eco. Ma gli elogi in memoria della grandi personalità scomparse lasciano sempre il tempo che trovano; si tratta di un «genere» giornalistico che probabilmente Eco avrebbe incenerito con una battuta. Mentre era in vita, la sua personalità complessa e la sua opera non hanno goduto solo di successi e riconoscimenti. Il carattere caustico e sferzante, l’amore estremo per il paradosso gli hanno provocato, infatti, frequenti attacchi e polemiche; la sua produzione non è sfuggita a critiche anche dure, specie all’uscita de Il cimitero di Praga, e prima ancora con Il pendolo di Foucault.
Ma questo in fondo capita alle grandi personalità che lasciano il segno. Un segno che nel caso di Eco non sta tanto nelle singole opere, o non solo in esse: che fossero celebri romanzi o le note della Bustina di Minerva, rubrica che per trent’anni ha tenuto sul settimanale «L’Espresso»; che fossero complessi scritti avanguardistici sulla filosofia del linguaggio, dove Aristotele spiegava Joyce e viceversa, o saggi teorici sull’estetica. Il segno, Umberto Eco lo ha lasciato ancor più nel tipo di intellettuale che è stato: un intellettuale atipico, vulcanico, fuori dal coro.
Un intellettuale atipico
Eco non lascia un’opera sistematica o, meglio, dei tanti generi che ha coltivato e praticato lascia infiniti brandelli sparsi di sistematicità, dando l’impressione di non avere alcuna intenzione di ricondurli ad unità. Al contrario, i suoi scritti, sempre a cavallo tra l’etereo e il quotidiano, tra il genere colto e la realtà più ruspante, pieni di inquietudini astratte ma al tempo stesso intimamente legati alla terra (come del resto era lui, da buon piemontese) sembrano quasi contenere una critica senza appello della sistematicità, delle grandi narrazioni finalistiche e consolatorie.
Da questo punto di vista, anche la sua parabola personale è significativa. Cattolico militante in gioventù, devoto, praticante e studioso convinto del più sistematico dei filosofi cattolici, San Tommaso, giunse poi alla definitiva apostasia da tutte le religioni, fino a teorizzare un vero e proprio relativismo ateo.
È sempre difficile – e forse anche abusivo – cercare la sintesi di ciò che sintetico e ordinato non era: una vita e un’opera effervescenti, in continua trasformazione. Eppure, anche a rischio di forzarne il senso, si potrebbe dire che la vera eredità dell’intellettuale atipico Eco stia nel «divertimento» con cui si è dedicato a smontare l’ossessione umana per il «grande disegno» che reggerebbe la vita e il mondo. I suoi numerosi scritti sarcastici sulle teorie del complotto e sulla struttura mentale che le alimenta, schiava dell’ansia di ricondurre tutto ad unità e razionalità; i suoi lapidari interventi per dirimere le disquisizioni sul sesso degli angeli; i suoi irriverenti paragoni tra il cattolicesimo e Macintosh e tra il protestantesimo e il sistema Dos. Lo spiegò benissimo: Macintosh è amichevole, conciliante, dice al fedele come deve procedere per raggiungere, se non il regno dei cieli, la stampa finale del documento; è catechetico, illustra le cose con formule semplici e icone chiare, dando a ciascuno il diritto alla salvezza. Dos invece è protestante, addirittura calvinista: prevede la libera interpretazione delle scritture, esige decisioni difficili e personali, non garantisce la salvezza, lascia l’utente in balia del suo tormento interiore. È evidente che in quella celebre Bustina del 1994 Eco non parlava solo dei sistemi informatici e di una controversia che va avanti ormai da trent’anni; era il suo modo, leggero ma serio, per affrontare una disputa assai più antica, profonda e complessa.
È questo, a nostro avviso, il lascito più importante di Umberto Eco: un’idea aperta di cultura, un approccio leggero e disincantato alla vita, dove tutto si collega, ma nulla è mai definitivo, completo, univoco. Dove nessuno è proprietario delle sue idee, dove un libro prolunga e moltiplica la vita, dove il filosofo è di buon umore, come lui soleva essere, e non si atteggia a filosofo, dove l’«alto» si mescola al «basso» perché l’uno non esiste senza l’altro.
Il «mito»
Molti di noi, cresciuti all’Università di Bologna senza la fortuna di averlo come docente, di Umberto Eco hanno conosciuto il mito. Voci e leggende sulle sue gesta, i suoi scritti e i suoi motti hanno continuato a rimbalzare per anni da un’aula all’altra. Come il fatto che facesse fare agli studenti il riassunto di Pinocchio dove ogni parola doveva cominciare con la lettera P; e se qualcuno replicava, gli prospettava l’eventualità del riassunto dell’Ulisse di Joyce in cui ogni parola doveva cominciare con la U!
Insegnava ai suoi studenti ad amare i libri, anche fisicamente: diceva che dei libri, come del maiale, non si butta via niente, che sono «miracoli di una tecnologia eterna» e, come la bicicletta, nessun apparato elettronico potrà mai eliminarli. E a tanti di noi ha insegnato come redigere la tesi finale col suo celebre saggio Come si fa una tesi di laurea; anche se oggi non è più di moda fra gli studenti, e molte cose sono cambiate nel sistema universitario, in fondo è sempre da quel testo che noi decenti traiamo ispirazione quando spieghiamo come si imposta una tesi di laurea.
Per anni il nome di Eco si è accostato ad una disciplina ai nostri occhi misteriosa, ancora poco conosciuta, la semiotica, che sembrava rinchiudere in sé segreti meravigliosi ed un orizzonte nuovo e affascinante di conoscenze. Gli stessi segreti e lo stesso mistero che popolano il suo romanzo più famoso, Il nome della Rosa, che gli valse la consacrazione mondiale: così repentina e dirompente che, mentre lo portava alla ribalta internazionale, finì per oscurarne le altre facce, quella del filosofo soprattutto. Ma, nonostante il trionfo mondiale, Eco rimase un uomo di cultura sterminata a cui ogni «categoria» andava stretta. Erede dei grandi eruditi medievali, che tanto aveva studiato, e dell’enciclopedismo illuminista, fu tra i primi ad anticipare i linguaggi e le formule discorsive che oggi trovano naturale espressione in twitter o facebook: l’incrocio continuo fra generi diversi, il collegamento paradossale tra cose remote, il gioco di parole arguto.
Dalla sua vasta erudizione, dalla sua morbosa curiosità per gli uomini e per il mondo, dalla sua eterogenea produzione continueranno per molto tempo a venire– ne siamo certi – spunti da approfondire, suggestioni da sviluppare, insegnamenti da trasmettere.
di Luca Tentoni
di Giulia Guazzaloca