Il ruolo di Fratelli d’Italia nel nuovo destra-centro
Lentamente, ma inesorabilmente, il partito di Giorgia Meloni si fa strada nel Paese, conquistando il secondo posto all’interno del centrodestra (non solo nei sondaggi, ma anche alle elezioni regionali, come in Umbria). È un percorso, quello di Fratelli d’Italia, al quale non è mai stata rivolta grande attenzione perché i successi della Lega e la crisi di Forza Italia hanno occupato le pagine dei giornali dedicate all’ex Cdl. Eppure, quello che nel 2013 era un partitino postmissino destinato a venire assorbito dalla Lega o a restare marginale in quel che rimaneva del centrodestra, si è fatto strada. La Meloni ha ragione quando rivendica che FdI è l’unico partito a non aver governato dal 2012 in poi: non ha sostenuto Monti (appoggiato da Pd e Pdl-Fi), né Letta, né Renzi, né il Conte-uno (Lega-M5s) e neppure il Conte-due (Pd-M5s-Leu). Stare all’opposizione in tempi di crisi e di difficile governabilità conta e rende, in termini elettorali. Se poi consideriamo che – dopo l’uscita dalla maggioranza gialloverde – la Lega sembra rimasta sulle posizioni delle europee, mentre FI ha continuato a perdere voti e FdI ne ha guadagnati altri (in Umbria) il quadro è completo. Già nel 2018, ma ancor più alle europee 2019 e nel ciclo delle elezioni nelle regioni ordinarie iniziato lo scorso anno, la destra sovranista postmissina ha avuto sempre ottimi risultati: in Piemonte, è passata dal 4% delle politiche al 5,5% delle regionali e al 6% delle europee; in Lombardia, 3,6% alle regionali del ’18, 4% alle politiche, 5,5% alle europee; in Umbria, 4,9% alle politiche, 6,6% alle europee, 10,4% alle regionali; nel Lazio, 8,1% alle politiche, 8,7% alle regionali ’18, 9% alle europee; in Abruzzo, 5% alle politiche, 6,5% alle regionali, 7% alle europee; in Molise 3,1% alle politiche, 4,4% alle regionali del ‘18, 6,3% alle europee; in Basilicata, 3,7% alle politiche, 5,9% alle regionali, 8,4% alle europee. Inoltre, in Friuli-Venezia Giulia FdI è passata dal 5,3% delle politiche al 5,5% delle regionali ’18 e al 7,6% delle europee, mentre in Sardegna, dove alle politiche del 2018 aveva avuto il 4%, ha raggiunto il 4,7% alle regionali e il 6,2% alle europee. Non si tratta dunque di un fenomeno passeggero, tanto più che il partito della Meloni ha guadagnato posizioni anche nei momenti di maggior progresso leghista. Il nuovo centrodestra sembra proporre uno schema non molto diverso da quello della Cdl del 2008, formata da un partito egemone (ieri il Pdl, oggi la Lega), un alleato fra l’8 e il 10% (ieri la Lega, oggi FdI) e uno minore (allora l’Mpa, oggi forse FI, sia pure con percentuali più alte, verso il 5%). Sono cambiate, com’è ovvio, le gerarchie, i programmi, forse anche i riferimenti culturali. Quello di oggi è un destra-centro dove i voti azzurri (come quelli dell’Udc nel 2008, quando Berlusconi decise di fare a meno del partito di Casini) sono solo aggiuntivi. Se si andasse a votare con l’attuale sistema elettorale, nei collegi uninominali sarebbe più che sufficiente un’alleanza a due Lega-FdI per vincere; se invece si riformasse la legge elettorale in senso totalmente proporzionale (cioè per tutti i seggi in palio) Berlusconi tornerebbe determinante per consentire al centrodestra di conquistare la maggioranza in entrambe le Camere (spostando però l’alleanza sovranista su posizioni più accettabili al PPE, il gruppo europeo al quale aderisce FI). Del resto, i numeri parlano chiaro: alle politiche del 2018 Lega e FdI avevano il 21,7% (FI il 14%; Udc l’1,3%) su un totale di coalizione del 37%; alle europee dello scorso 26 maggio, Lega-FdI avevano il 40,8%, FI l’8,8% (totale 49,6%) mentre oggi (sondaggio Swg per il Tgla7 – 27 ottobre) la situazione è questa: Lega-FdI 42,6% (Lega 33,6%, FdI 9%), FI 5,5% (totale 48,1%, al quale aggiungere l’1% o poco più del partito di Toti). In parole povere, con la legge elettorale vigente la Lega potrebbe vincere alleandosi solo con FdI escludendo FI, ma non con FI escludendo FdI. È un fatto acquisito, ormai, che la destra vera e propria ha stabilmente più del 40% dei voti (anche se esperienze passate insegnano che quella quantità di suffragi si può conquistare più facilmente che nel periodo 1963-2008, ma è difficile da mantenere). Vista dall’esterno, la presenza di Lega e FdI può apparire un problema, un “doppione” senza senso. Invece i due partiti sono diversi, hanno storie, leader e atteggiamenti solo all’apparenza simili. Recitano bene i ruoli che avevano il Pdl e la Lega: se nell’area di centrodestra l’elettore non apprezza più un partito, può tranquillamente votare per l’altro, senza che la coalizione ne risenta. Il crollo del 2013 fu dovuto – oltre ad una serie di fatti noti – anche alla crisi del Pdl-FI unita a quella della Lega (non ancora salviniana) e alla debolezza di un partito (FdI) che allora era troppo piccolo (1,96%) per costituire un’alternativa (infatti molti voti della Cdl andarono al M5s, dal quale sono usciti nel 2019 per “tornare a casa”). Oggi il centrodestra – in versione Cdl – viaggia fra il 48 e il 50% dei voti, come nel periodo 2001-2008. Ecco perché il M5s è in difficoltà (non essendo più il “rifugio” dei delusi del centrodestra, ma solo, ormai, degli antisistema, degli ex dei partiti della sinistra massimalista dei primi anni Duemila e di settori del centrosinistra giustizialista) e non sembra in grado di competere con la destra o col centrodestra in gran parte dei collegi uninominali (anche al Sud, ormai). Nel progetto di Salvini non può dunque mancare FdI, piaccia o meno: la Meloni lo sa, quindi procede sorniona nella sua opera di erosione dell’elettorato incerto di destra e centrodestra. Questo schema può essere messo a rischio – come si accennava - dall’introduzione di una legge elettorale proporzionale pura come quella pre-1992 per la Camera, per esempio. Non solo perché Berlusconi rientrerebbe in gioco, ma soprattutto perché – in uno schema senza coalizioni, nel quale ognuno compete con tutti gli altri – Lega e FdI dovrebbero farsi concorrenza, sottolineando le differenze e accentuandole, magari avviando un’aperta polemica fra loro (buona per i pochi mesi della campagna elettorale, forse, ma certo non indolore). Paradossalmente, il destino dell’alleanza sovranista è nelle mani della maggioranza giallorosa (che può cambiare il sistema di trasformazione dei voti in seggi) e quello del centrodestra passa anche per FdI (da comprimaria a seconda, determinante, forza della coalizione).
di Luca Tentoni
di Alessandro Micocci *
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