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24 aprile 2024
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Il ritorno di Di Battista

Francesco Provinciali * - 01.12.2018
Alessandro Di Battista

“Ci rivedremo a Natale”. Di Battista ha preannunciato il suo ritorno in Italia: non con la slitta trainata dalle renne da Rovaniemi ma dal tour familiare nel Sud America da dove evidentemente ha mantenuto contatti utili per un ripensamento. Il contratto di governo appare sempre più come un angusto contenitore dove stanno strette le esigenze dei due partiti alleati, ciascuno enfatizza quei punti e quei temi dai quali può trarre profitto di consensi, scalare i sondaggi in vista delle elezioni europee del 2019. Solo allora, anche in una logica di continuità e nesso problematico tra vicende nazionali e interfaccia con Commissione Europea e Banca Centrale la lunga campagna elettorale iniziata il 4 marzo scorso avrà termine: la posta in gioco è l’ordine mondiale, la tenuta degli organismi comunitari, sono gli equilibri internazionali che possono scompaginare le economie nazionali e le equazioni troppo scontate e viziate da eccesso di annunci tra programmi e azioni.

Certamente in Guatemala e nei Paesi che ha visitato qualche notizia è arrivata dall’Italia e molti ne avevano interesse: potrebbe essere Davide Casaleggio che da tempo persegue la deriva della de-istituzionalizzazione della democrazia partecipata e l’enfatizzazione di quella virtuale e legata alla rete, oppure Grillo stesso che non ha perdonato alcune distonie nella guida del Movimento, o l’evidenza delle cose, il  detto e ridetto, il gap tra promesse e fatti, la fronda crescente presso una parte dell’elettorato che aveva dato fiducia ai pentastellati e ora deve fare i conti con le contraddizioni del no vax, no tap, no tav – come direbbe Leopardi “all’apparir del vero”. Una prova recente è stata la forte presenza in piazza a Torino del popolo dello sviluppo economico, degli scambi commerciali, della crescita: una maggioranza finora silente che si è organizzata e induce a più di un ripensamento sulla decrescita felice e sul pauperismo egualitario del reddito per tutti, della lotta alla povertà agita con le leve dell’assistenzialismo e dell’omologazione.

O le bandiere bruciate in Puglia per i veti caduti sul gasdotto, e ancora le evidenze scientifiche sui vaccini che hanno spiazzato obiezioni degne dei secoli bui e la sconfessione della medicina ufficiale.

Per non parlare di alcune forzature di cui si è reso protagonista l’entourage di Di Maio, come la richiesta di impeachment del Presidente della Repubblica, il processo sommario sul crollo del ponte Morandi senza riguardo alle indagini in corso, i tentennamenti sui tempi del commissariamento e della ricostruzione.

Per non ritornare sul famoso taglio delle pensioni d’oro, repentinamente derubricato a possibile contributo di solidarietà a fronte dell’evidenza circa l’incostituzionalità già assodata del provvedimento: un argomento improvvisamente scomparso di scena dopo essere stato enfatizzato come metafora dell’uguaglianza e della giustizia sociale, vittoria epocale. Senza dimenticare altri fronti di conflitto e di distinguo come il condono edilizio di Ischia, quello della pacificazione fiscale, rivisitato fino a renderlo simile se non peggiore di quelli finora realizzati in Italia o il più recente tema dei termovalorizzatori.

O infine – l’attacco alla stampa e la minaccia del definanziamento dell’editoria, visto come provvedimento liberticida, il modo viscerale con cui è stata vissuta la vicenda giudiziaria del Sindaco di Roma, assolta in giudizio ma contestata dalle evidenze di una gestione stracolma di criticità del Comune di Roma.

Come in una commedia di Feydeau, alzato il sipario sul contratto di governo si sono aperte porte girevoli, dove si inciampa in passi falsi che hanno alimentato più dubbi che certezze: a cominciare dal cavallo di battaglia, quel reddito di cittadinanza che aveva portato sul balcone di Palazzo Chigi Di Maio e i suoi per annunciare un successo che la criticità delle procedure, l’inconsistenza dei centri per l’impiego, l’assenza di una progettualità fondata su soggetti-azioni-controlli ma soprattutto l’assenza di fondi ad hoc hanno reso una promessa indefinita, incerta, persino suscettibile di obiezioni interne.

Con abilità tattica e misurata progettazione strategica Salvini ha aperto sulla scacchiera del confronto interno e delle cose da fare le sue priorità, creando fronti diversi di dissenso, prove di forza fino allo scontro, adombrando da un lato veti e criticità insuperabili ma sempre rimarcando dall’altro la fedeltà al contratto sottoscritto con l’alleato di governo.

Finora è stato lui il dominus della situazione, la regia del dire e del fare gli va riconosciuta, avendo anche saputo appropriarsi del tema in questo momento più avvertito dagli italiani- quello della sicurezza – unito alle preoccupazioni di altri Paesi sull’integrità delle frontiere e la minaccia dell’islamizzazione culturale dell’Europa.

Primazia di un play maker che sa giocare su più fronti, calzante al riguardo la metafora esplicativa di Roberto Maroni che riassume tra “rito romano” e rito ambrosiano” la differenza di stile e carisma.

L’attuazione del programma di Governo segue priorità, promesse e impegni dei due vicepremier e del loro presidente: “stiamo lavorando, stiamo studiando, stiamo vedendo, stiamo valutando, stiamo organizzando”. Ci sono visioni, sensibilità e riferimenti diversi interni alla coalizione, ci sono i rilievi formali della Commissione europea, ci sono le difficoltà oggettive, onestamente anche in parte ereditate. Il tempo che trascorre può intensificare i fronti di azione, diversificare gli interventi e – come sottolineato argutamente da Giuseppe De Rita – richiederebbe meno enfasi negli annunci e più pazienza nell’incedere.

Per questo il ritorno di Di Battista è denso di significati impliciti ed espliciti.

La vicenda processuale del Sindaco di Roma si è chiusa senza danni ma resta aperto il tema di una leadership più autorevole per la guida del Campidoglio, senza considerare che il Movimento 5 stelle farebbe comodo disporre per le elezioni europee di un capolista trainante e carismatico come è Di Battista, anche in prospettiva di alleanze future con i populisti degli altri Paesi.

Si appalesa in tutta la sua valenza strategica il giro parlamentare saltato dal Dibba, che a differenza di Di Maio non sarebbe assoggettato al vincolo del doppio mandato.

Come dice Severgnini tra i due portieri sarebbe Di Maio ad incassare più goal.

Ma la ragione più vera che rende interessante il rientro del leader in volontario esilio è la sua vocazione ‘movimentista’, che lo rende duro e puro agli occhi della base elettorale, anche a costo di cadute di stile come nella considerazione e negli epiteti riservati a stampa e giornalisti.

Il tutto unito a doti comunicative dirette e alla capacità di far parlare la pancia della gente anteposto ad accordi, alleanze, contratti, mediazioni al ribasso, inciuci e in grado di creare una forza d’urto rispetto a veti, lacci e lacciuoli, fino a generare nuove immediatezze e priorità.

Combattivo, guerrigliero, giacobino: chissà se stando in America Latina si sarà reso conto delle differenze tra quel mondo attraversato da conflitti drammatici, soffocato dall’inflazione e allo sbando in tema di sicurezza sociale, con l’Italia e l’Europa.

Un rientro del Dibba scompaginerebbe non poche carte e alimenterebbe le ragioni del ritorno ad una visione aperta al movimentismo a tutto campo, a 370 gradi come direbbe qualcuno, a prescindere da alleanze e probabilmente non vincolata a quella che ora governa il Paese. Come dire: “liberi tutti”.

Vedremo gli sviluppi.

Tra chi resta e chi parte, a volte vince chi torna.

 

 

 

 

* Giudice onorario minorile TM Milano – già Dirigente ispettivo MIUR