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Il reato corre sul filo

Francesco Provinciali * - 18.05.2019
Corruzione

Forse ha ragione Federico Fubini, firma prestigiosa del Corriere della sera, quando si chiede se  a volte più che un giornalista servirebbe uno psichiatra per decifrare le cose della politica e della vita.

Anche se si riferiva a faccende di “governance” mi permetto di interpretare estensivamente questo suo dubbio espresso recentemente in un una nota trasmissione televisiva.

Non tutto può essere spiegato e non tutto può essere capito ma pareva che la stagione di Tangentopoli avesse lasciato cicatrici profonde e lezioni esemplari.

Non è cosi: evidentemente chi predica la teoria dell’anno zero continua a pensare che si possa ricominciare sempre da capo, redimersi oppure provarci nella convinzione di restare impuniti.

Il potere logora chi non ce l’ha ma può rovinare chi ne detiene anche un pizzico.

E così, ciclicamente,  ripartono nuove indagini e si dispongono nuovi arresti: il reato più frequente, manco a dirlo, è la corruzione che con l’evasione fiscale fa il paio delle note più dolenti che impestano il nostro Paese.

Non è solo questione di caste o di vertici, anche se dipende da quale osservatorio di vedono le cose: dato che la società dei rappresentati non è migliore della èlite dei rappresentanti, ci troviamo di fronte ad un fenomeno esteso, ramificato e pervasivo.

Ricordo che – nel corso della sua intervista – un importante magistrato mi aveva detto con tono rassegnato: “l’Italia è sempre stato, è e sarà il Paese della corruzione”.

Trovandosi tra le mani alcune intercettazioni roventi pare che abbia successivamente, in altra occasione,  esclamato, con un certo imbarazzo: “Che cosa ci posso fare se al telefono la gente parla solo di reati?”

Perché in fondo si tratta di un vezzo ricorrente, sottinteso e scontato  ma che non si ammette volentieri: un po’ per la diffusione capillare del vizietto che lo rende quasi un fatto normale e un po’ perché si pensa sempre che i panni veramente sporchi si trovino sempre nei lavandini altrui.

Privacy e trasparenza si sa, prima o poi configgono: sostenere entrambi i diritti può portare ad evidenti contraddizioni.

Diciamo che in genere il ragionamento funziona così: quello che appartiene ai fattacci nostri deve essere tutelato dalle regole della privacy – guai a chi ci ficca il naso - mentre ciò che riguarda gli altri va reso immediatamente disponibile, accessibile e trasparente.

Un senso etico double-face che viene bene in ogni occasione, la lancia e lo scudo della nostra coscienza, l’interruttore on – off che serve contemporaneamente per attaccare e per difenderci.

Perché parlare al telefono, lontani dal proprio interlocutore concede un appagamento indicibile, ha i suoi codici di comportamento, i suoi meccanismi psicologici e le sue valvole liberatorie.

Più che la distanza conta il mezzo, più della riflessione la velocità, più delle remore lo scarico immediato della pulsione: si vuota il sacco senza attaccare la spina del pudore.

Il chiacchiericcio telefonico, specie via cellulare,  ha un fascino che lo rende unico, toglie certi imbarazzi del presenzialismo invadente, permette di lasciarsi andare, nasconde i rossori delle bugie, è impalpabile, etereo, incontestabile, laconico, è un dire e disdire, resta sottotraccia.

Ah, lo smartphone! Resta l’icona della nostra libertà ma può diventare la fonte dei nostri guai.

Semplifica perfino le faccende di cuore: aveva osservato Gesualdo Bufalino che ci si accorge di non amare più una donna quando invece di scriverle una lettera le si telefona.

E poi c’è tutto un frasario sui generis, fatto di ammiccamenti, allusioni, mezze parole: “il topo è nella tana”….”la chiave è al solito posto”….”il lattaio chiude alle sette”….”non ho trovato la torta e allora le ho portato i fiori”….”il merlo non fischia più”….”la mia segretaria ha la varicella”….”la zia va in bicicletta”.

I più tradizionalisti usano un linguaggio scontato: ”….”per quella faccenda puoi stare tranquillo, ho sistemato tutto”, ma si tratta di pochi, innocenti sprovveduti.

Se qualcuno ascoltasse non ci farebbe caso.

Senza considerare il vantaggio di poter usare i termini convenzionali.

Tutti i potenti – ad esempio – sono semplici popolani: il deputato è un fornaio, l’imprenditore un magazziniere, il capintesta un cugino acquistato. E’ un modo come un altro per ammantare di poesia certi mercimoni: le bustarelle diventano torte, gli imbrogli si chiamano scatole e le raccomandazioni sono semplici auguri.

“Ti ho chiamato per il tuo compleanno”: non importa se lo si fa tre volte al mese.

Naturalmente si fanno più nomi che cognomi e in genere si usano pure nomignoli, soprannomi, dispregiativi e vezzeggiativi: “papino”….”il tonno”….”il chierichetto”….”la ciarlatana”….”il fetentone”…”naso aquilino”…..”il balordo” ….”la vipera”.

E poi ci sono i sibili, i bisbigli, i bzzzz, i ssshh, i mmmhh, gli accenti, la linea disturbata: avrà detto ‘càpitano’ o ‘capitàno’, “annusa” o “sfusa”, “àncora” o “ancòra”, “subito o subìto”, “muffa o “truffa”?

Ma questa è già mitologia: non aveva cominciato la Sibilla a imbrogliare le carte?

“Ibis redibis non morieris in bello”: evidentemente non si usavano ancora le virgole.

Può capitare, è ovvio, che uno incappi in qualche sospetto, se non c’è più che intesa – ma cosa dico- complicità:  mandare troppi fiori o dire che la nonna fa la marmellata ogni mattina sono eccessi di zelo o forme di altruismo?

Meno male che tra poco tutte questi malintesi finiranno, si potranno dire le cose come stanno, senza sotterfugi o doppi sensi.

Il secondo sport nazionale dopo il calcio, infatti è il pentitismo che prelude alla redenzione.

Come diceva una nota canzone di Franco Califano… “Non escludo il ritorno”.

E se uno al telefono dovesse dire “la partita con i napoletani ce l’aggiudichiamo noi” si può star tranquilli che intende parlare del campionato di calcio.

 

 

 

 

* Ex dirigente ispettivo MIUR